Nessun altro suo disco è stato tanto chiacchierato prima della sua uscita come questo “To the bone”. Il guru dell’attuale scena Prog probabilmente se lo aspettava, come qualunque Artista veramente libero di esprimersi senza condizionamenti di quelle etichette che servono solo a chi necessita di comode (e spesso proficue) strutture identificative. “Wilson scende alla Pop Music”: chi ha stabilito la Pop Music rappresenti una discesa qualitativa? Chi ha stabilito che Wilson debba creare necessariamente una Musica circoscritta in uno stile conclamato? Domande a cui è pleonastico rispondere. Il suo primo lavoro solista “Insurgentes” fu, per stessa ammissione/dichiarazione di Wilson, un collage delle sue influenze musicali (che spaziavano dai Gong e Brian Eno, attraverso King Crimson e Pink Floyd, fino all’elettronica dei Kraftwerk al Pop di Tears for Fears, Peter Gabriel, XTC, Talk Talk…). Oggi, dopo altri 3 album in cui ha sviscerato ed evoluto il Prog fino al capolavoro di “Hand. Cannot. Erase”, ripropone quell’esordio, ma in modo più evoluto o, forse meglio, più accurato. I testi sono “social oriented” ed i temi molto attuali (fake news, manipolazione delle informazioni, terrorismo, immigrati…). “To the bone” parte come fosse Porcupine Tree di “In absentia” ma è solo un accenno destinato a sfociare subito in quella che è la direzione complessiva dell’album: melodie e ritmiche vincenti. Armonica e chitarra elettrica di Steve in evidenza, ma è il refrain etereo del cantato nella parte finale a far decollare il pezzo. La successiva “Nowhere now” sembra uscita dai “suoi” Blackfield, Popsong che si fa ricordare. Il duetto di “Pariah” sembra ispirata a quella meravigliosa “In your eyes” di Peter Gabriel con Kate Bush? Si, tanto  e bene. Ninet Tayeb risponde per le rime a Steven: pezzo intenso, da brividi, costruito magistralmente. Poi gli “Yes di Trevor Rabin” si percepiscono con la successiva “The same asylum as before”, irresistibile refrain e bel lavoro ancora di Steven alle sei corde. Tocca a “Refuge” convincere definitivamente sul valore di questo nuovo album: inizio ipnotico e struggente che scatena poi tutta l’arte compositiva di Wilson. Nell’incedere ritmico supportato da base campionata, si sprigionano all’unisono i cori, e l’armonica di Mark Felthame fino alla chitarra dilatatatissima e lacerante di Paul Stacey, nuovo ospite dei fidati del nostro guru. Ma serviva qualcosa  di più: ecco allora la solennità “dietro le quinte” di un organo gigantesco che supportasse questi minuti spaziali o, forse meglio, astrali! “4 note” al piano a chiudere questo capolavoro che lascia fluttuanti ed incantati. Ecco la discussa “Permanating”, vera disco song che fa il verso ad ELO (o se preferite Beatles) ed Abba, bel falsetto danzereccio anni 70. Il successivo  e gradevole intermezzo vocale assieme a Ninet introduce la più accesa e rockeggiante “People who eat darkness”, qui vi sento riecheggiare i Porcupine Tree di “Fear of  a blank planet”. Spudoratamente Prince è richiamato nella successiva “Song of I”, bel lavoro orchestrale in un atmosfera crepuscolare. Per accontentare (si fa per dire) i fans dei “long minutes” c’è anche il pezzo Prog che fa ancora l’occhietto  a “Fear of  a blank planet”, soprattutto con le chitarre. Nella seconda metà, spazio alle performances soliste in cui evidenzio l’irresistibile basso di Robin Mullarkey  ed il solo di David Kollar, altro “Lucky guest” dell’album. I membri collaudati della sua band, Craig Blundell e Adam Holzman (ancora superbo in tutto l’album), coadiuvano Steven Wilson da soli, nell’ultima traccia, che ha nel suo lento e  malinconico incedere chiare reminiscenze dei Porcupine Tree, magari del periodo più “easy” di “Stupid dream”. Non credo voglia essere un segnale per una reunion della gloriosa band perché Steven Wilson è ormai un artista solista consacratosi meritatamente attraverso una lunga “gavetta” fatta di passione, determinazione e gigantesco talento. I suoi molteplici lavori ad altro nome (Blackfield, No man, Bass Communion…) e le sue collaborazioni più disparate testimoniano l’anima musicale, inquieta e brillante di un Artista libero di spaziare dove vuole nella Musica di qualità, e questo suo collage (o collection!) di songs ne rende ancora alta testimonianza, senza aggrovigliarsi in stupide comparazioni. Non è certo un capolavoro (nessuna genialata) ma un disco pop-rock gradevolissimo realizzato ai massimi livelli. Tanto onore.
Best tracks: “Pariah”, “Refuge”, “Detonation”. 7/10

STEVEN WILSON in tour:
Date tour in Italy: Milano, at Teatro degli Arcimboldi, 09 february 2018, Roma, Atlantico, 10 february 2018.


ANTIMATTER in tour:
Date tour in Italy: Roma, at Wishlist Club, 06 october 2017.


DAVID CAVANAGH (ANATHEMA)  will release the debut solo album "Monochrome"  on 13th ostober 2017.

ROBERT PLANT will release the new album "Carry fire" on 13th october 2017.