L’attesissimo nuovo album è uscito dopo 21 anni da “Up”. Il buon Peter ha sedimentato l’uscita per molti mesi facendoci ascoltare molti pezzi ivi contenuti anche attraverso un tour preprogrammato. Non sono mai stato un fan della sua musica ma non posso non riconoscerne lo spessore artistico ed il valore del personaggio sempre socialmente impegnato. Già l’equipe dei musicisti coinvolti lascia presagire ad un sound che non si discosterà dal passato, sono i suoi fidi: Tony Levin, David Rhodes e Manu Katchè, a cui si affiancano anche Brian Eno, Tom Cawley, Linnea Olsson e Paolo Fresu oltre alla New Blood Orchestra. La partenza è la cifra del disco pop che sostanzialmente è questo “i/o”, che mantiene anche le due sole lettere con cui firma da decenni i suoi album. “Panopticom” ha tutto per essere un brano vincente, refrain memorabile, arrangiamenti moderni ed impeccabili e la sua voce nel pieno della sua versatilità timbrica. “The court" è un pezzo molto più articolato ed in un certo senso complesso armonicamente. Un canto rap si mischia a controcanti in un contesto molto percussivo. “Playing for time” è un intimo inno alla “Here comes the food”, piano e orchestra di accompagno ma non ha certo la stessa forza e brillantezza. Anche “i/o” contiene gli ingredienti di una bella traccia d’annata e da canticchiare. Con “Four kinds of horses” si raggiungono vette più introspettive intorno ad un’atmosfera più cupa e misteriosa creata dall’intervento di Brian Eno ai sintetizzatori e ad arrangiamenti davvero sopraffini. “Road to joy” smorza le inquietudini precedenti e rimanda ai tempi di “Sledgehammer” con il lavoro chitarristico di David Rhodes in evidenza. Con l’intimistica “So much” rievoca le ballate piano e voce di Nick Cave. “Olive tree” rimanda agli eighties con tanti tromboni e sax. Di ben altra intensità invece “Love can heal”, vero gioello dell’album. Gabriel racconta con pathos sopra una bella ed ipnotica sequenza ai synth, voci celestiali e violini struggenti infieriscono incantevolmente. La percussiva “This is home” vuole sdrammatizzare con il suo ritmo afro. Tutt’altra atmosfera in “And still”, i rimandi sono alle sonorità anni ‘30 o ’40, forse quelli della madre a cui è dedicata la canzone. Orchestrazioni di altissima intensità e sequenze davvero coinvolgenti. La fine è affidata alla più solare “Live and let live”, un inno percussivo ancora dal sapore afro. Insomma il repertorio di Gabriel in questo disco c’è tutto ed è magistralmente prodotto e arrangiato, i testi sono quelli che sempre lo coinvolgono: il tempo, la mortalità, la giustizia, le trasformazioni, la comunicazione e l’ambiente, naturalmente. Un disco che non fa però gridare al sensazionale ma al risentito.
Best tracks: “Four kinds of horses”, “Love can heal”, “And still”. 7/10
THE PINNEAPPLE THIEF will release the new album "It leads to this" on 9th february 2024
THE PINNEAPPLE THIEF in tour:
Date in Italy: Milano, 07 marzo 2024, Alcatraz
HANS ZIMMER in tour:
Date in Italy: Torino, 10 marzo 2024, Auditorium del Lingotto Agnelli, Milano, 27 marzo 2024, Teatro Lirico Gaber. Bergamo, 30 marzo 2024, Teatro Sociale. Udine, 18 maggio 2024, Teatro Nuoco Giovanni. Roma, 26 maggio 2024, Auditorium Conciliazione
Accanto a Roger Waters nell’ambito rock c’è un altro dinosauro, inesauribile dispensatore di onde musicali: è Jean Michel Jarre, il guru dell’elettronica che alla veneranda età di 75 anni sta sfornando regolarmente album di qualità pazzesca dopo aver attraversato un unico periodo arido e creativamente insoddisfacente tra il 2000 ed il 2010. A vederlo sembra ancora un ragazzetto, un po' come Steven Wilson (sebbene di parecchio più giovane… forse che la buona musica è il miglior elisir di giovinezza?), ma sembra più affamato che mai, di cosa? Io credo la sfida attuale che lo stimola sia quella di dimostrare di essere il migliore anche nella musica techno, di poter dire che la techno esiste perché lui l’ha originata e lui la può portare ai massimi livelli, forte della sua lunga esperienza. Un altro aspetto, forse più ludico, è quello delle collaborazioni con questa tipologia di artisti: è un modo intelligente, e proficuo commercialmente, di far conoscere la sua musica, il suo curriculum anche ai più giovani proprio con la “doppia firma”, E questo lo aveva già sperimentato con il progetto “Electronica”. Dopo l’Oxymore dedicato al suo mentore Pierre Henry in cui esplorava sentieri techno-industrial, ora rivisita alcuni di questi brani con l’ausilio di altre icone del genere, più o meno giovani. Chiamato in causa Martin Gore per “Brutalism take 2”, una creatura industrial, ruvida e selvaggia, con un ritmo serrato ma che contiene un motivo di quattro note che la fa ricordare, eccome. Un’ariosa sovrapposizione di voci sequenziate indicano la genialità di Jarre e Brian Eno, il brano resta sospeso in un climax di voci e versi davvero affascinante. Una “reprise di Brutalism” con Deathpact la configura in un ambito dance-trance, ossessiva e cavernosa, i suoni utilizzati sono fantastici. Un “Epica take 2” è composta assieme a French79 e ne esce una versione galattica: dentro un arpeggio vorticoso e bellissimo ed una miriade di voci accennate, ancora 4 note a dettare ossessivamente il tema portante, è l’apoteosi del sequencer. I vocalizzi sintetici sono ancora l’asse portante di “Synthy sisters take 2” che con Adiescar Chase ci apparecchia anche delle belle note di piano malinconico. Ora si sale di quota ritmica ed “Epica maxima” rappresenta un vertice della trance, firmata con Armin Van Buuren. Anche qui un utilizzo dei sequencer superlativo ed emozionante. “Sex in the machine” è rielaborata con la dj Kraviz. Non è nuovo il nostro Jean Michel ad un rilettura in chiave elettronica o sintetica dell’amplesso, di quell’energia misteriosa che costruisce poi la sensualità descritta con “Rely on me” (con Laurie Anderson) o “Erosmachine”. Ancora paroline e sussulti sintetizzati dialogano all’interno di un atmosfera ibrida e scandita di una sola drum machine. La “Zeitgest take 2” con NSDOS è un trasboccante revival cibernetico mentre l'ultraterrena “Zeitgest Botanica” che chiude l’album è un vorticoso diluvio sonoro nell’ambito techno. Con Irene Dresel firma un altro capolavoro ricco di avveniristiche soluzioni elettroniche che solo un esperto ed incantato Jarre può immaginare e praticare. Un altro gran disco che ci ricorda di essere il numero uno quando si tratta di fare qualcosa con gli oscillatori e proiettarci nelle galassie sconosciute.
Best tracks: “Epica take 2”, “Epica maxima”, “Zeitgeist botanica”. 8/10
IN STUDIO FOR NEW ALBUM: AIRBAG, ASIA featuring John PAYNE, MOBY, THE PINNEAPPLE THIEF, DAVID GILMOUR, LEPROUS
NICK MASON's SAUCERFUL SECRET in tour:
Date in Italy: Milano, 18 luglio 2024, Teatro Arcimboldi. Vicenza, 19 luglio 2024, Piazza dei Signori. Bologna, 20 luglio 2024, Sequoie Musik park. Roma, 21 luglio 2024. Auditorium Cavea. Caserta, 23 luglio 2024, Belvedere di San Leucio. Roccella jonica, 24 luglio 2024, Teatro al castello.
YES in tour:
Date in Italy: Roma, 5 maggio 2024, La Nuvola. Milano, 06 maggio 2024, Teatro degli Arcimboldi. Padova. 08 maggio 2024, Gran Teatro Geox
TOTO in tour:
Date in Italy: Perugia,17 luglio 2024, Arena Santa Giuliana. Ostuni, 22 luglio 2024, Foro Boario. Este (Padova), 23 luglio 2024 Castello Carrarese. Lucca 24 luglio 2024, Piazza Napoleone
RAMMSTEIN in tour:
Date in Italy: Reggio Emilia, 21 luglio 2024, Arena Campovolo.
C’è un artista che a 55 anni ha già prodotto una discografia mastodontica tra collaborazioni, progetti solisti e paralleli, e le sue band; uno che ha già un libro autobiografico, uno che poi sembra somigliare a quei ragazzi ambiziosi che escono dalle cantine come dei nerd della musica, si, quelli tutti casa e musica. Sarà il suo aspetto pulito, non maledetto come tante rockstar si sono costruite o no volontariamente. Insomma di Steven Wilson ne escono rari soprattutto di questi tempi moderni, dove tutti rincorrono prima dei clichè e poi si interessano della loro musica. Steven Wilson è la musica, ovviamente parliamo di un contesto di musica, ma che lui ha e sta esplorando come un vero nerd appassionato. Solo nell’intervallo “pandemia covid” ha lavorato alla “rinascita” dei Porcupine Tree e a ben due progetti solisti: “The future bites” e questo nuovissimo “The Harmony codex”. Come dire: non sarà certo una pandemia a fermarmi, anzi. La sacrosanta libertà artistica che serve a Wilson per spaziare nel vasto universo musicale rappresenta anche il carburante per innescare nuove idee e nuove collaborazioni con musicisti diversi. Dunque dal prog, e poi dal rock al pop fino all’elettronica tutto è consentito e quest’ultimo lavoro mi appare come una condensa di quanto fatto finora. “Inclination” ha una prima parte strumentale, bellissima, con un ritmo house in cui si incrociano synth, trombe ed effettistica varia e poi decollare con il cantato di Wilson che rimanda alle sonorità pop di “To the bone”, insomma potrebbe essere un jazz ellettro-pop! Sono intervenuti tra gli altri David Kollar, Adam Holzman, Theo Travis, Pat Mastellotto, Nate Navarro, Nils Petter Molvaer. “What life brings” invece è suonata quasi interamente da Wilson (che torna a dimenarsi anche alla chitarra solista), a parte la sezione ritmica affidata a Craig Blundell e Guy Pratt. Un piacevole singolo. Su “Economies of scale” compie un gran lavoro di elettronica coadiuvato dal solo Holzman, il pezzo ha reminiscenze alla Tears for Fears ed è davvero interessante con il suo velo onirico. Eccoci alla lunga “Impossible Tightrope” che parte con orchestrazioni cinematiche e poi il batterista Nate Wood mena le danze in un vorticoso giro di giostra prog in cui hanno il sopravvento il sassofono di Travis prima ed il piano elettrico di Holzman dopo. Nel finale vanno apprezzati gli intrecci delle singole tracce, synth, orchestrazioni e solos. Tanta roba! Dopo un pezzo così impegnativo segue la più lenta e malinconica “Rock Bottom”, un dialogo vocale tra Wilson e una superlativa Ninet Tayeb collegato da una chitarra gilmouriana. “Beautiful scarecrow” ha molti sentori Porcupine, così oscura e profonda, e non a caso chiamato in causa il bassista Nick Beggs. Comunque da rilevare il bellissimo lavoro ai synth percepibile con attento ascolto. Ammetto che “The harmony codex” mi ricorda “Daydreaming” dei Radiohead un viaggio ipnotico senza fine, passaggi da una porta all’altra come nelle stesse video-clip. Una sequenza ripetuta ma asciutta, variazioni o condimenti pochi o nulli. “Time is running out” è condotta prima da un arpeggio pianistico e poi da un groove ritmico, tutto fatto da Wilson, però resta sospesa e poco convincente. Nel cantato rap di “Actual brutal facts” si inseriscono bellissime sonorità alla “Fear of a blank planet” dei Porcupine, devo rilevare ancora il gran lavoro ai synth. Si giunge al gran finale, e che finale! “Staircase” rimarrà tra i pezzi più belli scritti da Wilson. Sequenze vocali straodinarie e una base eletronica ipnotica fanno esplodere una ritmica portentosa ed a cascata interventi solistici (bravo Niko Tsonev) emozionanti, il refrain è epico come l’intermezzo al basso di Nick Beggs, pazzesco! Giusta chiusura con una sequenza ai synth degna del miglior Rick Wright di “Shine on you crazy diamond 2”. Sicuramente un altro bell’album, ricco ed articolato, così tanto da incidere forse sulla freschezza dell’idea compositiva, per questo ancora gli preferisco quell’ “Hand Cannot Erase” che aveva più pezzi memorabili.
Best tracks: “Inclination”, “Impossible tightrope”, “Staircase”. 8/10
JEAN MICHEL JARRE will release the new album "Oxymoreworks" on 03th november 2023.
PETER GABRIEL will release the new album "I/o" on 01th december 2023.
PALLAS will release the new album "The messenger" on 15th december 2023.
Il fenomenale polistrumentista sudafricano, noto per essersi ritagliato una parentesi nel lungo decorso degli Yes, esce dall’oblio del rock (dedicatosi esclusivamente alle Colonne Sonore) e produce il suo album solista dopo 11 anni dallo strumentale e variopinto “Jacaranda”. Si coadiuva del solo e fido batterista Lou Molino e scrive tanta nuova musica, di difficile definizione perché spazia nei generi più diversi. “Big mistakes” è la giusta opener, rock puro con tanto di refrain accattivanti, sentire la sua voce, quei cori, e quel solo elettrico ed elettrizzato finale rimanda subito al periodo eighties degli Yes (quel “90125”). “Push” ci dà una dimostrazione della sua abilità tecnica (pianoforte o chitarra non fa differenza) dentro un pezzo ben costruito e molto articolato, un folk-rock in cui intervengono addirittura mandolini e violini (di Charlie Bisharat), e la batteria di Vinnie Colaiuta. In “Oklahoma” esce fuori la sua esperienza in Colonne Sonore: pezzo dal sapore epico trascinato dalle orchestrazioni e poi un portentoso solo elettrico. La successiva e lunga “Paradise” contiene un lungo solo quasi slide, canti e controcanti in stile Yes e finale jazz ma non mi emoziona. Dopo la tirata ed astrusa “Thandi” in cui il buon Trevor sfoga una performance con l’elettrica al fulmicotone, si torna al folk slide di “Goodbye”. “Tumbleweed” poteva essere concepita solo dal suo genio e la sua maestria. Lungo gioco vocale che prende connotati jazzistici molto soft. “These tears” è una ballata lenta e malinconica, sapientemente costruita e suonata. Più sbarazzina “Egoli” in cui tornano le sue amate atmosfere folk. Il disco è chiuso da “Toxic”, non poteva essere un titolo migliore: un intreccio di blues e cori Yes legati dalla sua chitarra, un altro pezzo quasi inconcepibile per la sua struttura compositiva. Bello il duetto piano e violino nella bonus track “Spek & Polly” ed il jazz di “Georgia”. Insomma l’attesa è valsa, un disco ispirato e suonato divinamente, soprattutto chi ama questo musicista può restarne entusiasta.
Best tracks: “Big mistakes”, “Oklahoma”, “These tears”. 8/10
Avanza anche la carriera solista del talentuoso cantautore inglese negli intervalli degli impegni con i suoi The Pinneapple Thief. Sono momenti di riflessione, sulla vita e soprattutto sul tempo che scorre e la musica assume connotati intimistici in un impianto generalmente acustico. La vena melodica di Bruce è il suo marchio di fabbrica ed è inesauribile, già con l’opener “Dear life”, breve ballata chitarra, voce e orchestrazioni di fondo da canticchiare in spiaggia con falò. “Lie flat” aggiunge un ritmo campionato, la voce è riverberata, come stare in una giungla. “Olomouc” è condotta dalle orchestrazioni ed il cantato quasi dimesso. “So simple” fin troppo semplice ed inutile. “Never ending light” spolvera un delicato motivo ai synth ed interventi elettrici alla chitarra che impreziosiscono gli arrangiamenti orchestrali portanti. Un pezzo raffinato che resta però sospeso. Compiuta è invece “Day of all days”, altra ballata chitarra, voce e orchestrazioni che si fa ricordare e cantare. Ancora un motivo ai synth traina “Nestle in” che avanza con il cantato di Soord lagnoso e coinvolgente. “Instant flash of light” resta troppo sugli stessi binari sonori già ampiamente ascoltati. La strumentale “Rushing” sembra voglia cambiare qualcosa e finisce per essere un intermezzo quasi da “Budda bar”. “Stranded here” vuole invece annoiare e “Read to me” è la sua quasi provocatoria prosecuzione. E se con “Find peace” Bruce cercava la pace credo l’abbia trovata e la solennità dei violoncelli finali lo confermano. Anche se il disco voleva essere così, lento, pacato ed acustico non ho trovato grandi idee compositive e mi risulta un po' troppo piatto.
Best tracks: “Dear life”, “Day of all days”, “Nestle in”. 6/10
Quando recensisco Roger Waters sono di parte, sia chiaro a chi dovesse leggermi. Mi innamorai di lui per la sua coerenza, il suo perfezionismo, la sua passione ossessiva fino ad essere sempre divisivo. Anche con questo progetto è riuscito nel (prevedibile) intento. Decide di rielaborare addirittura il capolavoro per antonomasia con una chiave completamente diversa, non certo smussando, aggiungendo o sostituendo… l’ha dichiarato, non vuole bagnarlo d’altro bensì asciugarlo, perché emergesse quello che ritiene oggi possa essere esaltato, soprattutto da un punto di vista letterario/filosofico. Nessun parallelismo dunque, solo la rielaborazione di un artista libero, ora più che mai. Vi coinvolge molti musicisti dei suoi ultimi tour e vi aggiunge quattro figure nuove, proprio scelte per tale progetto: Via Mardot, talentuosa del magico theremin, Johnny Shepherd, rinomato organista, la vocalista Azniv Korkejian, compagna del bassista Seyffert, e Gabe Noel, arrangiatore delle orchestrazioni. Anche nel suo ultimo tour ribadisce prima di ogni concerto il suggerimento a chi ostenta solo fanatismo floydiano di andarsene affanculo al bar perché lui utilizza la sua musica anche per fare politica, che piaccia o meno, questo è sempre stato. La musica di “Speak to me” parte tra cinguettii e folate di vento, musica si fa per dire perché in realtà inizia il monologo di Waters introducendo il testo tenebroso di “Free Four” del 1972, un parlato che dice: “I ricordi di un uomo in età avanzata. Sono le azioni di un uomo nel fiore degli anni. Ti trascini triste nella camera da ammalato. E parli a te stesso mentre muori” e poi “La vita è un breve, caldo momento. E la morte è un lungo e freddo riposo. Hai la possibilità di provarci in un batter d’occhio. Ottant’anni, con un po’ di fortuna, o anche meno”. Il ritmo secco, asciutto e cadenzato accompagna tutto il disco e “Breathe” si colora di un organo che si intreccia a delicate orchestrazioni, la voce di Roger è roca e stanca ma bella proprio per questo, in questo contesto, in queste parole. Parte l’elettronica rielaborata dai synth davvero sintetici e più bassi che menano il motivo di “On the run”, con Waters che racconta di un suo sogno astruso… è meno frenetica dell’originale, addirittura contiene un’apertura quasi cinematica di orchestrazioni. Direi bellissima. Sorprendente la rilettura di “Time”, asciutta, oscura, cadenzata…i pad emozionali si alzano per introdurre il cantato di Roger, pacato ed accompagnato dallo strimpellio di una chitarra acustica e poi cori e orchestrazioni. Il solo di Gilmour è rimpiazzato da un theremin sensazionale, da brividi. E poi quei profondi violoncelli… magica! Il bellissimo strazio vocale di “Great gig in the sky” non c’è più, ma la morte viene lo stesso celebrata ed annunciata prima dalle campane e poi da un coro soffuso e filtrato che va ad intrecciarsi con il nuovo racconto di Waters (una lettera di Kendall Currie, assistente del poeta Hall) accompagnato da uno stridente theremin. Il 4/4 di “Money” è ancora più lento e cadenzato, Roger non lo canta neppure, lo racconta accompagnato da lampi di archi profondi e davvero coinvolgenti. Insomma, super acustica e arrangiamenti sublimi. Non l’ho mai amata molto “Money” ma questa, così, ha il suo perché, la trovo meno banale, anzi, interessante. Cosa fare della perfettissima “Us and them”? Giustamente era già così lenta e bassa da non richiedere particolari interventi per questo redux, a parte l’accompagnamento vocale e le orchestrazioni a dargli una dimensione più regale. In “Any colour you like” un vibrante theremin dialoga con il violoncello, poi il basso, l’hammond insomma intervengono tutti gli strumenti come fossero colori dell’arcobaleno. Roger vi aggiunge che qualsiasi colore siamo, qualsiasi bandiera appoggiamo dovremmo però essere uniti nell’unica causa, l’unica bandiera in cui tutti dovremmo poi riconoscerci: la pace. La follia di registrare un nuovo “Dark Side” è il pretesto ironico con il quale metaforicamente introduce e descrive “Brain Damage”, la pazzia, il caos in cui sembra nel finale onirico assumere un senso, una logica come le stelle nell’universo, ognuna con una sua funzione all’interno di un unico progetto. E allora l’incedere di “Eclipse” può aprirsi, liberarsi e mostrare luce e buio, vita e morte insieme in un orchestra di meraviglia che non ha spiegazione ma solo contemplazione, un pò come gli occhi del cane in copertina. Voglio chiudere con le bellissime parole di Nino Gatti: “Mai. Mai. Mai una volta che questa canzone riesca a lasciarmi gli occhi asciutti. Troppi i significati racchiusi, tantissimi i momenti da ricordare, innumerevoli i riflessi luminosi che la luna prova a nascondere offuscando il sole. E quel battito del cuore finale, che è vita ma anche tutto il contrario della stessa, ti indica ritmicamente che la puntina sta per finire il suo percorso tra i solchi delle emozioni. “There's no dark side of the moon really. In matter of fact, it's all dark”. Era la frase dell'irlandese Gerry O'Driscoll che chiudeva “Dark Side”. Gerry era il portiere degli studi Abbey Road; così come per altri personaggi (tra i quali i coniugi McCartney), era stato chiamato da Waters (ancora lui!) per rispondere a una serie di domande che sarebbero state spalmate all'interno del disco per rendere universali i temi delle canzoni. Waters decide di chiudere la “sua” Dark Side rispondendo direttamente al buon Gerry, volato nei cieli da qualche anno, con queste parole: “Ti dirò una cosa, Gerry, vecchio mio. Non è tutto buio, vero?”…”. Le battaglie e le ossessioni di Roger Waters ottantenne sono ancora sul palcoscenico, come anche sul palco della vita che ha vissuto costruendosi (forse per intercessione) come nessun altro l’immortalità.
Best tracks: “On the run”, “Time”, “Any colour you like”. 9/10
L’inarrestabile Luke dei Toto produce un nuovo capitolo solista nel mezzo di continui “live” con i Toto rimaneggiati nella formazione ma mai domi dopo tanti annunci di scioglimento. Lukather però chiama a sè i suoi amici/colleghi storici anche per i suoi progetti solisti: Simon Phillips, Lee Sklar, Shannon Forrest e naturalmente Dapid Paich con Joseph Williams. L’album è quella variopinta confezione di generi sempre molto vicini e che hanno caratterizzato la sua carriera solista e quella dei Toto. Troviamo due ballate (spicca “All forevers must end” e la blueseggiante “Take me love”), il blues portentoso di “Burning bridges”, il rock sostenuto di “Far from Over” e i classici Toto Style più o meno riusciti: “Someone”, “Not my kind of people” quelli bassi e quelli alti come “When I see you again” e soprattutto “I’ll never know”. Nulla di strabiliante o memorabile ma cosa chiedere di più a questo fenomenale chitarrista che suona per sè e per una folla di artisti da quasi 50 anni? Suona come sempre per il piacere di farlo.
Best tracks: “When I see you again”, “All forevers must end”, “I’ll never know”. 6/10
Dopo 10 anni tornano sulla scena recuperando il tastierista Sveinsson ed anche le sonorità ambient di “Valtari”. Abbandonati gli esperimenti quasi industrial di “Kveikur” il trio islandese dichiara di voler recuperare sonorità che emozionassero e commuovessero, nell’intento di proporre un ritorno all’Umanità ed alle proprie radici. Per questo la batteria si fa scarna ed essenziale e coadiuvati però da una vera orchestra (London Contemporary Orchestra). L’inizio è affidato a “Glod”, solenne intro orchestrale in una sospensione generale enfatizzata da intrecci vocali filtrati. La successiva “Blodberg” fa già rabbrividire la pelle: lento, lentissimo canto sussurrato ed accompagnato dagli archi magnifici come magnifica la performance vocale di Jonsi. “Skel” prosegue nella stessa direzione, la musica è sempre più eterea, i vocalizzi vibrano lontani e poi si avvicinano sussurrati. Emozionante davvero. Le orchestrazioni di “Klettur” sono lievemente ritmate come un pulsare umano, una vita che si erge e si innalza maestosa come la voce che l’affiora carezzevole come l’organo che la consacra. L’incredibile “Mor” sembra l’inno di un organismo vivente indefinito, orchestrazioni sensazionali tessono un autentico capolavoro sonoro. Con “Andra” si sperimenta e si infiltrano elementi acustici sempre in una sfera sonora onirica. Jonsi costruisce in “Gold” un'altra preghiera emozionante con la sola voce e orchestrazione soffusa e lineare e che si immerge in una dimensione acquatica attraverso un sapiente utilizzo dei synth. “Ylur” ha un formato più classico anche nel cantato e sembra fungere da intermezzo per il gran finale. Le note riverberate di “Fall” incantano ed ipnotizzano in questo breve ma intenso gioiello sonoro che introduce la conclusiva e lunga “8”. Le scarne note del piano puntellano un motivo epico e supplichevole, ed il resoconto è nella sua seconda parte silenziosa, quasi inespressiva ma di pura contemplazione. I Sigur Ros firmano un autentico capolavoro sonoro che vuole elevare, purificare e riconciliare, cielo e terra, con profonde e suggestive radici.
Best tracks: “Blodberg”,“Skel”, “Klettur”, “Mor”. 9/10
BRUCE SOORD will release the new album "Luminescence" on 22th september 2023.
STEVEN WILSON will release the new album "The harmony codex" on 29th september 2023.
TREVOR RABIN will release the new album "Rio" on 06th october 2023.
ROGER WATERS will release the new album "The dark side of the moon-redux" on 06th october 2023.
BRUCE SOORD in tour:
Date in Italy: Bologna, 05 ottobre 2023, Lokomotiv Clubo. Milano, 06 ottobre 2023, Arci Bellezza. Roma, 08 ottobre 2023, Auditorium Parco della Musica.
Incredibile nuovo lavoro degli YES, mai domi dopo le dipartite ultraterrene di Squire e White, quelle artistiche di Anderson e Wakeman, si riorganizzano intorno la storica figura del chitarrista Steve Howe, anche il tastierista Downes, il bassista Sherwood, il batterista Schellen e l’ormai fido alter ego di Anderson, tale Jon Davison. Howe sembra vivere una freschezza e brillantezza compositiva pari alla sua abilità strumentale e dopo l’ottimo “The quest” alza ulteriormente l’asticella. Le atmosfere pompose e sognanti sono il marchio di fabbrica della loro musica e che propongono già subito con il pezzo d’apertura “Cut from the stars”, il basso di Sherwood è agitato e pulsante ed è lo strumento che emerge e più mi impressiona, con il dialogo finale tra Howe e Downes. “All connected” rimanda al periodo d’oro dei Seventies, in cui la slide guitar tirava le redini del loro stile. Qui è Howe nella sua totalità a dettare il pezzo tra un bell’arpeggio (leit-motiv), solistica e ritmica. Stellare e luminosissima è appunto “Luminosity”. Intrecci corali e strumentali che fanno rivolgere lo sguardo ad un cielo ricco di stelle, come canta un Davison capace di elaborare una melodia vocale davvero trascinante, come il motivo chitarristico di Howe. Tra i loro pezzi più belli di sempre. “Living out their dream” sembra più una jam session, nel senso il pezzo appare come una divagazione strumentale di ogni musicista senza un vero filo conduttore, probabilmente preparatorio (hanno riscaldato le dita) al capolavoro massimo che è “Mirror to the sky”. Suite di oltre 13 minuti che parte con un Howe sontuoso, una vera guida che a metà strada ci fa esplorare i sentieri intricati di archi e vocalizzi e poi ancora gli archi con la sua sei corde solista per un bel finale atmosferico e deciso dalle orchestrazioni. La conclusione è affidata ad una ballata acustica e discreta che racconta la circolarità del tempo. Ci sono anche 3 bonus tracks e sono belle anche quelle. Il Prog era la musica della sperimentazione e ad un certo punto si è fermato girando su se stesso. Gli Yes sono stati tra gli artefici del genere ed hanno continuato a girare su se stessi ma quasi mai a vuoto (dopo oltre 20 dischi e tante vicissitudini!), fedeli al loro stile e fedeli al loro pubblico regalandoci grande musica, come in questo caso, ottimo tributo dedicato a White.
Best tracks: “All connected”, “ Luminosity”, “Mirror to the sky”. 8/10
ROGER WATERS will release the new album "The lockdown sessions" on 02th june 2023.
PETER GABRIEL in tour:
Date in Italy: Verona, 20 maggio 2023, Arena. Milano), 21 maggio 2023, Forum Mediolanum Assago.
Purtroppo mi duole constatare che i Virgin Steele, o forse meglio dire il mastermind David DeFeis, sono collassati nel limbo del più sterile dei deserti musicali. Dal 2000 qualche sporadico lavoro arido ed inutile a cui si aggiunge quest’ultima fatica, anzi strazio, perché di strazio si parla. L’epic metal di DeFeis è qui riproposto in 10 lunghe composizioni monotone e noiose tanto da indurmi ad evitare di descriverle singolarmente. Uno che come me ha amato il loro periodo di splendore (da “The marriage…” a “The house… ”) non può restare sconcertato e deluso da questo abisso che rappresenta questo nuovo disco, di cui salvo solo “Unio mystica”, giusto per dare un riferimento del loro stile e potenziale a chi non li conoscesse.
4/10
YES will release the new album "Mirror to the sky" on 19th may 2023.
SIGUR ROS will release the new album "Atta" on 16th june 2023.
NICK MASON in tour:
Date in Italy: Vicenza, 19 luglio 2023. Palmanova, 20 luglio 2023. Cattolica, 21 luglio 2023. Matera, 23 luglio 2023. Pompei, 24 luglio 2023. Gardone Riviera, 26 luglio 2023.
PORCUPINE TREE in tour:
Date in Italy: Roma, 24 giugno 2023, Auditorium Parco della Musica. Piazzale sul Brenta (Padova), 25 giugno 2023, Anfiteatro Camerini.
MARILLION in tour:
Date in Italy: Padova, 28-29 aprile 2023, Gran Teatro Geox.
RAMMSTEIN in tour:
Date in Italy: Padova, 01 luglio 2023, Stadio Euganeo
Mick Moss ritorna con la sua band occasionale recuperando vecchi pezzi mai registrati ed inizialmente scartati. Dopo 5 anni dal buon “Black market…” quest’ultimo lavoro non nasce sotto i migliori auspici. Il leader sembra girare la minestra aggiungendo strumenti sorprendenti per il suo rock “dark” come il sassofono. Andiamo nel dettaglio: “No contact” è un classico Antimatter mid tempo ipnotico che esalta il cantato alla Eddie Vedder di Moss e coadiuvato di un bell’intervento di sax. “Paranoid carbon” contiene un lavoro di fondo ai synth, come nella successiva “Heathen” che aggiunge un sax incomprensibile in un contesto acido e distorto. “Templates” ha un inizio interessante alla Massive Attack ma poi si perde nei soliti territori. “Fold” è indubbiamente una bella ballata ma certo il cantato di Moss resta sempre lo stesso. Alza ancora l’asticella l’arpeggiata ed ipnotica “Redshift” che si avvale questa volta di un sax finale ed un flauto coinvolgente. Il flauto di “Fools gold” lascerebbe presagire un pezzo interessante che si rivela presto confuso. Neanche con l’elettronica di “Entheogen” si capisce la vera direzione, dopo l’anonima ed acustica “Breaking the machine” si chiude con l’elettrica “Kick the dog”. Purtroppo il problema della musica degli Antimatter, quindi di Moss, è Moss, il suo cantato monotono non rende onore alla sua bella timbrica e non basta mischiare gli ingredienti per fare un buon album, nonostante qualcosa di buono sia uscito dal pentolone.
Best Tracks: “No contact”, “Fold”, “Redshift”. 6/10
Questo nuovo lavoro che giunge dopo 5 anni dal precedente “Wasteland” può stabilire due aspetti: la band sta cercando un pubblico più ampio, un successo commerciale, e dal metal progressive da cui partirono sono giunti ad una formula più rock; e poi la grave perdita del chitarrista Grudzinski nel 2016 è stata in realtà rimpiazzata dal tastierista Michal Lapaj, nel senso che le tastiere hanno ora il sopravvento ed il nuovo chitarrista Meller riveste un ruolo davvero marginale. L’apertura dell’album è un vero singolo che raccoglie perfettamente quanto finora ho espresso: “Friend or Foe?” sembra una hit anni ’80 con il cantato di Duda che usce come dall’ugola di Morten Harket degli A Ha. Il grande lavoro è tutto di Lapaji che costruisce ai sintetizzatori groove vincenti e si lasciano ricordare. “Landmine blast” ha un bel giro di basso pulsante e la chitarra che avanza linee melodiche, sono i Riverside prima maniera. “Big Tech brother” è davvero travolgente, ritmica forsennata, riffoni e linee melodiche vengono agganciate perfettamente da un certosino lavoro ai synth di Lapaji. Gran pezzo, con spazio anche per Meller di lanciare echi di gilmouriana memoria ed un finale incandescente che ricorda la bellissima “Echo” dei Leprous. “Post-Truth” e’ indefinibile nella sua composizione articolata e degna dei migliori Dream Theater. Arriva il pezzo più lungo e prog dell’album: “The place where I belong” è una giostra di atmosfere e funambolismi tecnici e stilistici. L’Hammond dei seventies si prende spesso lo scettro delle operazioni fino a quando Duda detta la melodia trascinante con un cantato in crescendo e molto evocativo. Dal sound dei 70 si torna ai Riverside più classici e granitici di “I’m done with you” che strizza l’occhio ai Porcupine Tree. “Self-Aware” è l’altro singolo che chiude l’album, un motivo ispirato che a tratti ha sentori reggae e poi finisce quasi galattica. Se “Id.Entity” voleva dare un identità definitiva alla musica dei Riverside non so quanto l’intento sia riuscito, a meno che aspirino ad essere una band spaziale, nel senso libera di spaziare dove e quando vuole nello stile e genere. Perché l’album resta un saliscendi di diverse sonorità ed atmosfere. Io continuo a preferire i Riverside dei primissimi lavori.
Best tracks: “Big tech brother”, “Friend or Foe?”, “Self-Aware”. 7/10
Già con il precedente lavoro la band tedesca cercava soluzioni alternative, tentativi a non ripetersi, rinnovarsi sempre. Con questo nuovo album è abbandonata l’elettronica che aveva un pò troppo confuso e destabilizzato il loro sound e stile ma il risultato non cambia molto: apprezzabile il tentativo, ma bersaglio quasi fallito o, meglio, non proprio raggiunto. A parte qualche episodio, si resta su territori già battuti in lungo e largo e spesso senza “un filo d’Arianna”. Riff martellanti e arpeggi che tracciano la linea melodica, sezione ritmica travolgente e precisa al metronomo sono gli ingredienti base del loro Sound che qui cerca di connotarsi in una versione più Prog o, meglio, Metal-Prog. Si parte con le malinconiche note al pianoforte di “Enter: death box” che annuncia “Blades”, un vero marchio di fabbrica: chitarre ruggenti che dialogano e costruiscono continue soluzioni armoniche ed una ritmica serrata che non lascia respiro. Nella successiva “Kamilah” si annusa qualcosa di nuovo: prima una chitarra che stende una melodia e che apre a sua volta la porta ad una sequenza al fulmicotone, poi un delicato intreccio di arpeggi disegna invece un'atmosfera contemplativa e davvero coinvolgente che cresce di tono con un bellissimo fraseggio finale. I King Crimson affiorano con “500 years”, suoni distorti ed astrusi costruiscono un’atmosfera ipnotica in cui si staglia un lamento stridulo che esplode in una sequenza ritmica degna dei migliori Tool. “Sloth” è il pezzo più originale dell’intero album: geniale come un sax si inserisca in un contesto come quello già ampiamente descritto e lo fa in un modo splendido, sublime. Sax che inizialmente tesse la melodia e la stessa atmosfera incantata, e poi inizia a dialogare magicamente con una chitarra prima arpeggiata e che poi fionda in un sontuoso fraseggio solistico. Il duello chitarristico Jordan/Funtmann costruisce l’intera “Giants leaving” tra saliscendi continui. La dinamica e l'articolazione ritmica è costitutiva di “Blood Honey”, che rimanda ai primissimi lavori ed a certi sentori Prog dei Gods is an Astronaut. Più ariosa è “Landless king” che sciorina una bella linea di basso e le celebri fughe chitarristiche. La finale “Eraser” è anche il testamento lirico dell’album: la lenta distruzione della natura e l’estinzione della specie a causa sempre dell’uomo. Un motivo arpeggiato ed ipnotico traina il brano inizialmente tirato ma poi adagiato in una dimensione più struggente con l’utilizzo anche del violino. I pezzi sono belli, la cover art è bella, la produzione è notevole, eppure l’album non convince, non grida al capolavoro a cui invece potrebbero aspirare, perché suonano alla grande e cercano sempre l’esplorazione in un contesto musicale commercialmente difficilissimo. Al prossimo tentativo allora. Best tracks: “Kamilah”, “500 years”, “Sloth”. 7/10
Ancora un mio "idolo" lascia questo mondo, il 4 dicembre 2022.
Nato a Berlino il 9 novembre 1952, è tra i miei chitarristi preferiti, autentico esploratore del suono, genio musicale, pioniere del Krautrock, ispirazione del movimento dance house e techno. Può bastare così.
Non ci saranno distanze quando mi sintonizzerò con la sua Musica. Grazie Man
Anche i Threshold arrivano alla soglia dei 30 anni d’attività, con diversi rimescolamenti nella formazione nel corso degli anni, in particolare al microfono, che segnala purtroppo la perdita prematura del buon Andrew McDermott. Dopo il capolavoro mastodontico di “Legends of the shires” si assesta alla vocals ancora Glynn Morgan e con ottimi risultati. Tra i tanti casi di band e musicisti che hanno ottenuto meno (successo) di quello che meriterebbero ci sono anche i Threshold: una discografia onestissima, un livello compositivo sempre alto ed un sound moderno e straordinariamente versatile. Il loro metal può ammiccare un’ampia platea perché spazia dal Prog, al Dark, all’Heavy con una compattezza ed equilibrio sbalorditivo. L’iniziale “Haunted” è subito tiratissima e travolgente con un ritornello mozzafiato e la caldissima ugola di Morgan a direzionare il pezzo anche su intermezzi più adagi ed intimistici. Non c’è tempo di appassionarsi per questa presentazione altisonante che la successiva “Hail of echoes” conferma quello che accennavo: straordinaria sinergia degli strumenti, tappeti tastieristici inappuntabili di West dialogano meravigliosamente con le chitarre di Karl Groom, sia ritmiche che soliste. Le pelli di James a tenere un dinamismo che è marchio di fabbrica e Morgan ancora più teatrale che mai. “Let it burn” parte spaziale ma presto si assesta su un metal puro trascinato da un incredibile Morgan, decisamente dominante e coadiuvato da un gran lavoro tastieristico di Richard West. “Silenced” ha un sentore di Muse nel refrain con voce filtrata ed atmosfera futuristica seppur tirata e dinamica. I Dream Theater più melodici sembrano aver ispirato la bellissima “The domino effect”, che dire, brividi! Un refrain meraviglioso, una costruzione compositiva brillante e doppio guitar-solo per ogni gusto. No relax con “Complex”, suona massiccia come un classico senza stupire, nonostante West e Groom le provino tutte. “King of nothing” mantiene quanto detto per “Complex”, solo che qui è Morgan a dimenarsi su un pezzo compositivamente un pò scontato. “Lost along the way” è un mid-tempo che fa il verso agli Asia prima maniera, come anche “Run”, del resto. La conclusiva “Defence condition” vuole essere una summa di quanto ascoltato finora: i toni si fanno epici con tastiere ariose e Groom che articola riff massivi ad emozionanti arpeggi che segnano il passo vocale di un Morgan sempre a suo agio. Non posso non segnalare il lavoro sempre ispiratissimo di West che dimostra sempre un certo gusto negli interventi e nelle scelte, tutte. Insomma, alla fine un altro bel disco che suona alla grande, magari non al livello compositivo del predecessore. Best tracks: “Haunted”, “Silenced”, “The domino effect”. 7/10
Sono trascorsi ben 27 anni dall’esordio degli Arena in quel genere così variopinto qual’è il Progressive. La loro storia musicale cavalca un pò gli avvicendamenti alla voce: i primi lavori con Paul Wrighston erano Prog Marillion al 100%, poi Rob Sowden li dirottò verso un metal Progressive alla Savatage ed infine Paul Manzi ad un Prog più Aor, commerciale per così dire. Dopo 4 anni da “Double vision”, Nolan e compagni hanno deciso ad un'ulteriore virata chiamando alla nuova causa la più celebre ugola di Damian Wilson, uno che di band Prog ne ha girate in lungo e largo. Il timbro di Wilson è completamente differente da quello del buon Manzi, meno teatrale ma più duttile e acuto. Si parte subito con i vocalizzi di “Time capsule”, un pezzo travolgente che si fa cantare a squarciagola, un vero inno tra i saliscendi. La successiva “The equation” ha le magiche atmosfere dell’IQ sound, un Nolan in grande spolvero ai synth ed ai tasti d’avorio, un’interpretazione di Wilson magistrale con tanto di refrain vincente, peccato solo l’elettrica di Mitchell sia rimasta nell’ombra. Il livello resta altissimo con la ballata atmosferica di “Twenty-One grams”, anche qui un refrain sensazionale ed aperture tastieristiche, Wilson impeccabile e Mitchell in disparte. L’arpeggio malinconico della breve “Confession” funge da intermezzo per la successiva “The Heiligenstadt legacy”, in cui Nolan tesse al pianoforte l’impianto che esplode nella drammaticità espressa dall’ugola di Wilson, ancora una volta superlativo. “Field of sinners” rievoca i vecchi Arena, quelli epici e prog tondi tondi, non a caso è la chitarra di Mitchell qui a tornare in auge. Con “Pure of heart” si resta su un sound familiare per gli Arena, saliscendi continui tra toni drammatici ed aperture più temperate. “Under the microscope” si dimena tra fughe tastieristiche e finalmente anche chitarristiche, e poi i soliti guizzi vocali di Wilson. “Integration” sembra essere l’apoteosi musicale di Nolan che traghetta il pezzo con lunghissimo fraseggio tastieristico dal sapore Yes. La marcia sincopata di “Part of you” è davvero bella, finalmente Mitchell inventa qualcosa e Wilson interpreta meravigliosamente. Brividi. La conclusiva “Life goes on” chiude nel modo migliore l’album: coesione perfetta tra i musicisti, un pezzo epico ed equilibrato nelle sue parti, in cui il solito genio di Nolan che puntella al piano per far esplodere un refrain trascinante come le corde elettriche ed ispirate di Mitchell. Ammetto che i picchi degli ultimi due pezzi elevano il mio gradimento di un album che fondamentalmente non si lasciava ricordare tra i migliori della loro discografia. Best tracks: “The equation”, “21 grams”, “Part of you”, “Life goes on”. 8/10
C’erano già state avvisaglie con “Aero” e recentemente con “Amazonia”, tentativi forse incompiuti di ricercare qualcosa d’innovativo nella Musica Elettronica. Già questo sembra essere un ossimoro. Spingersi oltre, o forse meglio, insieme alla tecnologia sempre più veloce e velocemente: la Realtà Virtuale o Metaverso. I 74 anni del principesco Jarre sono a disposizione per ulteriori esplorazion,i non certo ad assestamenti o nostalgici riepiloghi, d’altronde non si è giganti per caso! “Come Vivaldi è stato grazie al violino, Fellini e Tarantino grazie ai fratelli Lumiere”, così Jean Michel si identifica nell’inseguimento della velocissima tecnologia più immersiva. “Oxymore” è dedicato al suo ispiratore Pierre Henry, “Oxymore” è neologismo sincratico di “Oxy” (dal suo Oxygene”) e “more” (di più), quindi ancora più ossigeno alla sua Musica! L’Optical Art di escheriana memoria è scelta a supportare l’esperienza visiva, già dalla copertina. Armarsi della migliore ed ultima attrezzatura diventa fondamentale per apprezzare i dettagli sonori (in multicanale!) di cui ha voluto immergerci questo straordinario artista, perché qui si tratta di una vera “esperienza uditiva”, insomma, quantomeno con delle buone cuffie! Si parte con i ticchettii ambient e la voce di Henry di “Agora” per introdurre la “title track” dell’album. Qui vi fa esplodere tutta la potenza comunicativa di questa vera esperienza musicale: un intreccio incredibile di pennellate alla Pollock magistralmente misurate tra sampler, sequencer e punteggiature percussive per firmare un quadro rappresentativo di un Universo sconosciuto e vorticoso. “Neon Lips” sembra una rielaborazione dei primissimi “studi” di Jarre quali “Erosmachine”, “La cage” o “Happiness is a sad song”. “Sonic land” è una vera apologia dello jarrismo: pad, violini, sampler ritmano all’interno di un ambiente industrial e crepuscolare. Nella bellissima “Animal Genesis” compare in modo più massiccio il sequencer che danza in una marcia ipnotica e cupa, quasi siderale. Con “Synthy Sisters” si torna alle sonorità di “Neon lips”. “Sex in the machine” ha un motivo “mantrico” che sostiene innumerevoli “pennellate sonore”. “Zeitgeist” sembra cavalcare lo spirito dei tempi, i nostri: voci ed informazioni che si intrecciano e confondono con un ritmo quasi dance. Con “Crystal garden” si torna ad un ambient sempre più asciutto e robotico. “Suoni selvaggi” introducono la giungla di “Brutalism” in cui innumerevoli versi animaleschi sembrano dialogare magistralmente. La tecno-ambient “Epica” è degna conclusione di questa fantastica opera musicale, di una musica che verrà, forse con tante incertezze sulla stessa ma non certo sul genio creativo di Jarre che ancora una volta ha centrato il bersaglio al suo ennesimo “esordio”! Best tracks: “Oxymore”, “Sonic land”, “Animal genesis”. 8/10
Anche questo nono album non rende giustizia al potenziale della band, e non si avvicina neppure a quelli che potevano essere i loro gioielli più compiuti: “Resistance” e “The 2nd law”. I pezzi di 3-4 minuti spaziano nel loro repertorio musicale cercando di accontentare tutti, ma, forse, non loro. Eppure le ambizioni le hanno sempre avute: i loro testi o temi sono sempre impegnati ed anche in quest’ultimo lavoro non sono da meno. Dall’abuso delle macchine distruttrici, la lotta all’autoritarismo dei governi, il mondo del metaverso fino appunto alle forme di paura che stanno governando le vite delle persone: pandemie e situazione globale del pianeta. Già con la title track “Will of the People”, Bellamy incita i popoli a ribellarsi, ad autodeterminare il proprio destino. Musicalmente il pezzo più tirato, un metal alla Queen. “Compliance” è un pezzo molto più interessante in una ritmica ’80, con tanto di DX7. Contiene dei passaggi ed arrangiamenti elettronici geniali mentre Bellamy canta “rappato”. La successiva “Liberation” è un inno ai Queen in toto, “Won’t stand down” ha i riff granitici di album come “Absolution”. Con “Ghost” si procede ad una stasi contemplativa: Bellamy in bella mostra al piano ed alla voce, da brividi. Interessante anche l’organo onirico nella moderna “You make me feel like it’s Halloween”, uscita come dal repertorio di Claudio Simonetti. Con “Kill or be killed” si torna alle sonorità tirate di “Absolution”, in cui si può apprezzare uno splendido lavoro chitarristico di Bellamy. L’arpeggiata ed ipnotica “Verona” regala momenti di alto lirismo e pathos. “Euphoria” vuole condensarsi di epicità ma resta fondamentalmente scanzonata e facilotta, con un refrain parecchio banale. L’elettro-punk di “We are fucking fucked” chiude questo album di protesta, piacevole ma nulla di più. Best tracks: “Compliance”, “Ghost”, “Verona”. 7/10
ROGER WATERS in tour:
Date in Italy: Milano, 27-28-31 march 2023, Mediolanum Forum Assago, 01 april 2023, Mediolanum Forum Assago. Bologna, 21 april 2023, Unipol Arena, 28-29 april 2023, Unipol Arena.
MUSE in tour:
Date in Italy: Roma,18 luglio 2023, Stadio Olimpico. Milano, 22 luglio 2023, Stadio Meazza.
RIVERSIDE will release the new album "ID.Entity" on 20th january 2023.
I misteri della mente, l’anima che fluttua nello spazio, il corpo che insegue il tempo… è tutta l’immaginazione che costruisce la musica di Schulze o tutta la musica di Schulze che costruisce l’immaginazione nel suo angolo massimo? L’espressione musicale di Schulze è certamente quella più spaziale che l’immaginazione possa produrre o farsi produrre, quindi la perdita dello spazio e del tempo è la condizione “sine qua non”. Klaus Schulze ha lasciato questo mondo poco prima la pubblicazione di questo suo ultimo viaggio cosmico e per questo ne diventa il Suo Testamento. Ascoltare questa Musica diventa un’esperienza extra-sensoriale, un culto emotivo più forte ancora di tutta la sua lunghissima discografia. Il Padre della Musica Elettronica, il pioniere del Krautrock, il guru intergalattico ha fatto diventare “stereotipo di consumo” il viaggio musicale di oltre 30 minuti in cui (parafrasando Piero Scaruffi) timbri di synth e ritmi sintetici si intrecciano e si dilatano fino ad imbastire una sospensione ineluttabile delle vicende terrene. Parlare di Schulze significa esporsi “all’esperienza Schulze” e così consapevoli ed entusiasti è possibile far partire quest’ultimo meraviglioso viaggio. “Osiris” ci immerge molto lentamente nell’universo sonoro dell’artista, tappeti sonori dilatatissimi cominciano a bollire con un sequencer appena accennato, uno che va ed uno che viene dentro un’atmosfera sospesa e ripetuta, volumi che si alzano e si diminuiscono senza però che accada nulla di diverso. La successiva “Seth” ci proietta immediatamente dentro scontri cosmici e già le prime sequenze di accordi costruiscono lentamente la tela sonora in cui si infrange d’incanto il primo sequencer. Questo è un momento toccante e straziante: le immagini si condensano e si moltiplicano in un ritmo accennato ma efficacissimo. Alcuni accordi cominciano a farsi insistenti, più alti in un piano sonoro in cui regna sì l’attesa ed un pò di inquietudine ma, nonostante tutto, un paesaggio confortante. Improvvisamente tutto si spezza, tutto è frenato, ed è un violoncello (di Wolfgang Tiepold) ad indicarne il bivio: siamo nel bel mezzo di eventi stellari in cui è possibile alla fine riprendersi ma solo sull’avanzare ipnotico di un nuovo sequencer che avanza sugli inserti timbrici di quel violoncello straziante quanto emozionante fino al suo esaurimento. Siamo di nuovo catapultati dove avevamo iniziato ma qui il violoncello esaspera i pad finali di questo pezzo dalla bellezza inaudita. “Der hauch des lebens” è davvero il battito della vita. Siamo dentro luoghi siderali, freddissimi, ai margini del sistema solare. Suoni di synth stratificati che si ravvivano da un altiscendi al sequencer di cui Schulze è maestro incontrastato e acutizzati dalla voce di Maria Kagermann. Non ci si rende conto come tutto sembra sia cambiato e cresciuto, nonostante tutto sia rimasto invariato nei sedici minuti trascorsi. Allo spegnersi del sequencer però sembra davvero tutto stia morendo, minuti flebili e desolanti, indecisi da un nuovo sequencer che riparte ma con synth incerti, stramazzanti fino alla solennità di un altissimo pad che si erge ad indicarne la fine, come un organo da chiesa. Se Klaus Schulze ha voluto descrivere o immaginare la sua morte, non c’è riuscito perché questa Musica resterà immortale. La ciclicità così ridondante nella sua Musica è la ciclicità rappresentata nella grafica di questo suo testamento. Se un’anima potrà fluttuare ancora vagante nello spazio certamente quella potrà essere dell’artista tedesco o di quelli che così l’hanno sempre immaginata. Grazie intanto di questo capolavoro, tua opera magna. Best tracks: “Seth”, “Der hauch des lebens”. 9/10
JEAN MICHEL JARRE will release the new album "Oxymore" on 21th octobert 2022.
L’evento più insperato ma anche il più atteso è accaduto il 24 giugno, gli inossidabili fan (io per primo) dei Porcupine Tree sono stati premiati. A 13 anni di distanza dal loro ultimo “The incident” possiamo gustarci un loro nuovo lavoro, indipendentemente dal livello qualitativo. Una band di culto si ama a prescindere e loro sono stati i migliori rimodulatori del sound floydiano, gli unici a ricrearne uno stile proprio su quelle radici così leggendarie e nobili. Il merito è inequivocabilmente del loro guru Steven Wilson che esattamente 30 anni fa faceva partire il viaggio che raccoglie il meglio della psichedelia, dello space-rock, del metal, del prog e dell’elettronica. E’ partito per gioco e da solo, poi si è unito un batterista molto dotato, Chris Maitland, un tastierista (atipico) già noto con i Japan, Richard Barbieri, ed il bassista Colin Edwin. Li ho conosciuti all’inizio del loro successo, era il 1996, subito dopo l’uscita di “The sky moves sideways” ed a ridosso del successivo “Signify”, li ho conosciuti nella città che li ha fatti esplodere: Roma. A Roma la radio locale Radio Rock li ha accompagnati al successo, già con i primi concerti… sette anni di crescita esponenziale in tutta Europa fino al cambio di batterista che li ha portati per altri ulteriori sette anni alla consacrazione, fino a conquistare anche l’America. Il mito del nuovo batterista Gavin Harrison ha certamente creato un ulteriore livello, non solo musicale. La bellissima carriera solista di Wilson ha addolcito questi lunghi 13 anni di silenzio della band che ha approfittato del lockdown da pandemia per riorganizzarsi, senza il bassista Edwin, ritenuto disinteressato anche a livello compositivo. Wilson rimprovera proprio nel torpore compositivo degli altri componenti il motivo che ha segnato la lunga pausa produttiva della band. In realtà è stato evidente quanto Wilson cercasse nuovi stimoli e sperimentazioni con nuovi musicisti che gli estendessero il bagaglio musicale e gli innescassero una brillante carriera solista. Con i ruoli definiti di Harrison alla stesura delle ritmiche, Barbieri a pitturare le atmosfere e Wilson alle composizione (si occuperà anche di tutte le linee di basso), i tre musicisti hanno dato qui tutti il loro apporto creativo. Proprio l’iniziale “Harridan” (primo singolo) rappresenta al meglio il “core” dell’intero album. Basso e batteria funky dettano una ritmica che sarà la struttura portante non solo di questo pezzo, le melodie sono asciutte, scarne e tanti sono gli strumenti che si inseriscono ma sempre solo accennati. Dalla seconda metà riffoni metal si incrociano con i suoni lisergici di Barbieri che rimandano ai primissimi fasti della band. E’ un pezzo astruso e sinistro che finisce con il cantato struggente di Wilson dopo un bellissimo lavoro al sequencer di Barbieri. La successiva “Of the new day” è la ballata che non deve mancare in un disco Porcupine Tree: la linea melodica (molto bella) è imbastita subito alla partenza dal cantato di Wilson, atmosfera nostalgica sconquassata da qualche sterzata chitarristica incrementata dalle aperture sonore di Barbieri. Non è scontata e prevedibile forse, ma meno coinvolgente di una "Lazarus" o "Shesmovedone". “Rats return” è una traccia "politica" nella quale Wilson invita a non fidarsi mai troppo dei politici che ci governano, il risultato è ovviamente un pezzo molto sostenuto che rimanda proprio a quel “The incident” e alle prime produzioni soliste di Wilson, in cui i riffoni vengono alternati a cori onirici. La successiva “Dignity” è un'altra ballata che rimanda da subito alle atmosfere di “Lightbulb sun” e “Stupid dream”: ha un bel refrain (riproposto alla fine anche al piano), slide guitar, potente mellotron e fantastico motivo al sintetizzatore di Barbieri, in un certo senso può richiamare anche a quella bellissima “Perfect life” di “Hand cannot erase”, ma qui c’è tanto di più a livello compositivo e sonoro. “Herd culling” potrebbe stare dentro un album come “In Absentia”, ma mi ricorda tanto le bellissime esplosioni di “Open car” in “Deadwing”, gran lavoro di tutti i musicisti che trovano le idee giuste per il pezzo che vede anche il primo (e breve) solo chitarristico di Wilson nell’album. “Walk the plank” invece sembra uscita dagli ultimi album synth-pop di Wilson, privo di chitarre ma ricco di soluzioni ai sintetizzatori, in un atmosfera sospesa che vede il magistrale lavoro di Barbieri, l’abilità di Harrison ed una bella performance vocale di Wilson. Si giunge al capolavoro finale che si chiama “Chimera’s wreck”: Wilson avanza un motivo struggente arpeggiato alla chitarra con tanto di falsetto sul cantato. L’atmosfera cresce e si fa sempre più frenetica, si fanno sentire i tamburi titatissimi di Harrison, improvvisa penetra una chitarra tagliente con tanto di wah wah, in levare è poi richiamato il motivo trascinante. Il basso pulsa forte come l’intera linea melodica riproposta negli accordi chitarristici finali, maledettamente belli. Un bonus disk regala l’intero album in versione solo strumentale ed altri tre pezzi degni di nota: “Population 3” è uno strumentale total guitar oriented che ricorda cose contenute nell’epoca “Signify”, ipnotica e malinconica. “Never have” sarà stato uno scarto di “The incident”, un pezzo articolatissimo, ricchissimo di sfumature e variazioni ritmiche ma non per questo meno coeso o meno bello, anzi. “Love the past tense” sembra un pezzo uscito dagli Yes di “90125”, il refrain è trascinante grazie anche ad un poderoso mellotron, il lavoro chitarristico è straordinario, le dilatazioni sonore finali da brividi. Com’è possibile relegare fuori dall’album tre pezzi così riusciti e brillanti? Perché profondamente diversi dalle caratteristiche di un album costruito essenzialmente su una poderosa e articolatissima sezione ritmica (Harrison è quasi ingombrante) e priva di orpelli, le linee melodiche sono scarne e l’ascolto è difficile perché mai scontato, mai prevedibile. Come la grafica, così essenziale e minimal, ma anche impegnativa perché ogni riquadro bianco vuole spronare l’immaginazione di ognuno a completare interamente le immagini inserite. I Porcupine Tree si sono fatti difficili, sospesi ed impegnativi, ma non sempre convincenti. Tante idee (anche buone), costrette ad essere cucite, in modo brillante certo si, ma in un periodo così lungo da indebolirne l'originalità e la freschezza compositiva. Best tracks: “Harridan”, “Dignity”, “Chimera’s wreck”. 7/10
ALAN PARSONS will release the new album "From the new world" on 15th july 2022.
PORCUPINE TREE in tour:
Date in Italy: Milano, 24 ottobre 2022, Forum Mediolanum Assago.
Il seguito del loro capolavoro del 2019 pone subito due quesiti: sarà davvero l’ultimo? I pezzi contenuti sono solo gli scarti del precedente? Premetto subito che dopo un paio di ascolti non ho riscontrato picchi entusiasmanti e neppure novità o freschezza compositiva. I testi ed il climax generale dell’album lascerebbero presagire effettivamente una fine del progetto Rammstein. Il metal pesante ingerito in un' accennata elettronica è il marchio di fabbrica della band tedesca guidata dal leader carismatico Till Lindemann e questo nuovo capitolo consolida pienamente questa formula. L’introduttiva “Armee der tristen” è un epica avanzata verso il nocciolo successivo ma centrale dell’intero album: il Tempo. Le liriche di “Zeit” raggiungono fulgide vette, emozionanti e profonde come tutta la prosa a cui Lindemann ci ha abituati. Ad accompagnarle ci sono ovviamente i cori e le note di un bel pianoforte che non si adombrano neppure dietro i soliti riff roboanti. La successiva e notturna “Schwarz” non decolla mai nonostante sia stato cercato un giusto equilibrio tra metal e motivo pianistico. “Giftig” mi richiama subito al sound dell’album precedente (“Auslander”, “Radio”…), pesantissimi riff che dialogano con un motivo tastieristico, in un'atmosfera spaziale. “Zick zack” è un ottimo single, ha tutto: dinamica, refrain vincente e addirittura accompagnato alle tastiere per farsi ricordare meglio, come avveniva negli eighties. L’incisiva ed esplosiva “OK” ha una ritmica quadrata e notevoli interventi al sintetizzatore. In “Meine trainen” Lindemann racconta di un metaforico “Vivo ancora con la mamma” per indicare le difficoltà nell’assunzione delle proprie responsabilità ed affrontare l’imprevedibile (“Un uomo piange soltanto quando sua mamma muore”) . “Angst” parla dell’angoscia ma musicalmente non ha nulla da sottolineare. “Dicke titten” sembra sia stata scritta per me: la ricerca di una donna senza talenti particolari ad eccezione di grandi seni. Anche in questo caso, musicalmente nulla da segnalare (a parte l’inserimento di un nostalgico motivo alla radio). Di musica si torna a parlare con “Lugen”, il pezzo decisamente più interessante: cadenzate e delicate gocce sintetizzate vengono sovrastate magnificamente da una tempesta elettrica, ma soprattutto da un sontuoso, evocativo, straziante Lindemann, che utilizza anche un vocoder per imprimere a perfezione il messaggio (di un bugiardo!). I Rammstein ci lasciano davvero con “Adieu”, il tono è ancora epico quanto scontato almeno, speriamo solo, musicalmente. Best tracks: “Zeit”, “Zick zack”, “Lugen”. 7/10
ZEIT
Dopo di noi ci sarà il prima
La giovinezza si trasforma in difficoltà
Continuiamo a morire, finché viviamo
Morire vivendo nella morte
Andiamo alla deriva verso la fine
Nessuna sosta, solo andare avanti
Sulla riva attende l’infinito
Prigionieri così nel flusso del tempo
Per favore fermati, fermati
Tempo
Dovrebbe sempre andare avanti così
Il corpo caldo diventa presto freddo
Il futuro non può essere evocato
Non sopporta la permanenza
Creato e immediatamente distrutto
Giaccio qui tra le tue braccia
Ah, potrebbe essere per sempre!
Ma il tempo non conosce nessuna pietà
Il momento è già passato
Tempo
Per favore fermati, fermati
Tempo
Dovrebbe sempre andare avanti così
Tempo
È così bello, così bello
Ognuno conosce
Il momento perfetto
Tempo
Per favore fermati, fermati
Quando la nostra ora è giunta, allora è tempo di andare
Smettere, quando è il momento migliore, gli orologi si fermano
Il momento è così perfetto, ma il tempo continua a correre
Aspetta un attimo, non sono ancora pronto
Tempo
Per favore fermati, fermati
Tempo
Dovrebbe sempre andare avanti così
Tempo
È così bello, così bello
Ognuno conosce
Il momento perfetto
ARENA in tour:
Date in Italy: Milano, 08 october 2022, Phenomenon (Veruno).
MUSE in tour:
Date in Italy: Firenze, 17 june 2022, Firenze Rocks, Milano, 26 october, Alcatraz.
RIVERSIDE in tour:
Date in Italy: Milano, 09 september 2022, Live Club (Trezzo sull'Adda).
ARENA will release the new album "Theory of Molecular Inheritance" on 21th october 2022.
Ricordo gli appuntamenti della mia gioventù con "Ottava Nota" su TVA40 (una tv locale romana), erano sacri, imperdibili.
Un personaggio chiave per la mia crescita musicale è spirato il 9 maggio all'età di 67 anni.
Mi ha fatto divertire e non mi ha mai spaventato, come amava prendere e prendersi in giro, fino al suo delirio.
https://www.youtube.com/watch?v=n8_eb0HZMGI
Il chitarrista degli Airbag si è saputo creare una consolidata carriera solista senza che compromettesse la produzione della band madre (e lo abbiamo visto con il loro ultimo stupendo album). Ciò che sorprende è la qualità costante dei suoi lavori e questo quarto ne rende testimonianza. E’ vero anche che dal chitarrista più gilmouriano vivente non si possa pretendere anche una genialità compositiva, nulla del suo materiale esce dai canoni che hanno reso celebre i Pink Floyd. Su basi atmosferiche, lente e distinguibili si scaglia la chitarra sferzante e tagliente di Bjorn. L’iniziale “Run” contiene appunto i saliscendi, le atmosfere e l’aggressività di “Animals”, in un perfetto equilibrio tra elettrica ed acustica. “Lay me down” poteva essere un pezzo da “Identity” (album capolavoro degli Airbag) a tutti gli effetti, il chitarrismo di Riise (suona anche le tastiere) traina e coordina sempre, cambia solo il vocalist che non è Tolstrup ma proprio Bjorn con l’apporto di Mimmi Tamba. Le note di piano introducono “The siren” ma non spostano di una virgola lo schema di una ballata malinconica. Un sentore di “Pigs on the wing” pervade a tratti “Every second every hour”, il cantato narrativo di Riise è accompagnato da un bel mellotron ed alcuni spunti strumentali notevoli, come un bel giro di basso a metà pezzo. L’anonima “Descending” apre la pista alla finale “Everything to everyone”. Altra ballata costruita nel modo prevedibile che abbiamo già descritto. E’ proprio la prevedibilità il tallone d’achille di questo album (e forse anche dei precedenti), la formula è vincente e godibile, ma prevedibile ed alla lunga annoia. Best tracks: “Lay me down”, “Every second every hour”. 7/10
PLACEBO in tour:
Date in Italy: Firenze, 17 June 2022, Firenze Rocks. Mantova, 29 june 2022, Piazza Sordello. Milano, 27 october 2022, Mediolanum Forum Assago.
RAMMSTEIN in tour:
Date in Italy: Torino, 12 july 2022, Stadio Olimpico grande Torino.
MUSE will release the new album "Will of the people" on 26th august 2022.
THE CURE will release the new album "Songs of a lost world" on september 2022.
Forse uno dei pochi ad aver apprezzato quel “Loud like love”, da allora sono trascorsi ben nove anni e sono successe parecchie cose. La defezione dell’ultimo batterista Steve Forrest e la necessità di rinnovarsi anche attraverso un modo compositivo diverso prima di riproporre ancora una collezione di canzoni solo per soddisfare le case discografiche. Un processo lungo ma che ha premiato il capriccioso Brian Molko, rimasto ancorato alle sue turbe esistenziali e che vengono ribadite anche in quest’ultimo lavoro. I rampolli prediletti di Bowie hanno partorito nuova musica davvero ispirata e godibile, e ad affiancare il duo Molko/Olsdal compaiono due nuovi batteristi e due programmatori. L’inizio presenta un tris di pezzi in pieno stile Placebo da cui esce il single “Beautiful James” con il suo motivo al synth ripetuto e trainante. Da “Happy birthday in the sky” il livello cresce notevolmente. Una ballata straziante che esalta la voce di Molko, egregio lavoro dei synth ed una dinamica propulsiva. “The prodigal” non fa che alzare il tiro attraverso un gioco di archi barocco ed irresistibile per un pezzo arioso, quasi giocoso ma per nulla banale. Le atmosfere si fanno di nuovo claustrofobiche con “Surrounded by Spies”, candidata ad essere tra i loro pezzi migliori in assoluto. Ossessiva ed ipnotica attraverso un ritmo quasi sincopato e magistrale utilizzo dei synth, il resto lo fa un Molko evidentemente a proprio agio, anche tra le bellissime note di piano finali. “Try better next time” è l’altro potenziale single danzereccio quanto pleonastico. Ancora un bel motivo al synth mena le danze di “Sad white reggae”, breve, intensa e ben costruita. Ritmi serrati per “Twin demons”, elettrica ed effettata il giusto per essere vincente "live". La politica “Chemtrails” è una cavalcata monolitica in cui sono ancora i synth a dare il giusto colore. L’arpeggio ipnotico di “This is what you wanted” costruisce il pezzo più intimistico. “Went missing” è un'altra ballata convincente, e compositivamente geniale: Molko racconta con la voce in un atmosfera sospesa, poi alza il tiro e nel finale gli rispondono una bellissima linea melodica della chitarra ed un organo effettato ad incentivare il pathos melodrammatico. La fine è affidata a “Fix yourself”, una polifonia di linee melodiche che si intrecciano in modo geniale, una fusione di “The Cure” e ”Pet Shop boys”. Un disco da avere perché può fare la storia del loro genere e che fa emozionare, grazie ad un magistrale utilizzo dei sintetizzatori, vera novità compositiva del pacchetto. Best tracks: “Happy birthday in the sky”, “Surrounded by Spies”, Went missing", “Fix yourself”. 8/10
Un pezzo del mio cuore si sgretola alla notizia del trapasso del mio "idolo elettronico".
Il più seducente corriere cosmico torna alla sua origine il 26 aprile 2022 dopo oltre 74 anni di frequenze memorabili.
Nato a Berlino il 4 agosto del 1947 per regalarci veri viaggi intergalattici, ad ispezionare le più profonde radici umane senza limiti all'immaginazione.
"Ho diciotto sintetizzatori sul palco e non sono mai fuori tono perché li amo veramente. Parlo con loro, e se per caso qualcuno mi procura dei problemi gli dico: “Ok, non ti suonerò stasera… Se c’è qualcosa che non ti piace, non insisterò. Domani si vedrà"
"Quando posso concentrarmi su un progetto preciso, mi sento felice e mi diverto. Questo è un modo per restare vivo, in salute e in armonia con il mio spirito"
Music is a dream without the isolation of sleep. In fact whilst listening to music, your ego is living. But your universal ego - your principle watching of your self ego - is taking a new level of participation, the dream is reality because you are living the dream, and your dreams control your reality.
The supreme reality is creativity (all kinds of art), which takes you back to your mental origins.
So my concept (if there is one) includes your mental superior reality a well as daily life.
The musical theory is perfection, sometimes never obtained. The concept is a mental reaction, the process of movement and change, the basics of mankind.
Music to me is the background to a mental picture, but the exact interpretation must be made by the listener, hence the music is only half composed and the listener hmself should attack the composition to gain a mental repercusion.
The listener has to addthe meaning.
Of course my composition is in a basic direction which is my own creativity, but I think it leaves space for interpretation, which must also be done by the listener.
This is why perhaps people love or hate my music!
Sime people don't invest effort into things if no material profit is to be had, unaware of the mental joys.
This is a very short explenation of political and marketing manipulation, I could go on, but it is for the people to find their own brain oscillition, if they don't it becomes a boring joke.
The principles of my music are to make the listener powerful and happy to endure our dying planet life by using their own creativity, and being aware of emotion.
It should be a way of living by people who compose their lives and as is usual the composition of politicians and manipulators.
I wish everybody a pleasant exploration of themselves, I cannot say it properly in words.
I'm not a poet but a musician.
In love
K. Schulze
Il guitar-hero statunitense è al suo diciottesimo e puntualissimo lavoro. Il fido Bryan Beller al basso e Kenny Aronoff alla batteria compongono la sezione ritmica ed Eric Caudieux impreziosce alle tastiere ed alla produzione. Assortito di tutto il suo già vasto repertorio: il medio-oriente di “Sahara” e l’oriente rockeggiante di “The elephants of mars”, la melodiosa ed avvincente “Faceless”, il blues di “Blue foot groovy”, il rock-fusion di “Tension and release”, le esplorazioni e diavolerie chitarristiche in “Sailing the seas of Ganymede”, l’acustica dal sapor mediorientale di “Doors of perception”, la jazzata “E 104th St NYC 1973”, “Pumpin’” regala virtuosismi al bassista e segnala il ruolo delle tastiere che si fa ancor più marcato ed efficace nel prog di “Dance of the spores” e nella più elettroniche e sperimentali “Night scene” e “Through a mother’s day darkly”, la ballata di “22 memory lane” ed il finale atmosferico ma retorico di “Desolation”. Ed è proprio la retorica che indebolisce il giudizio di questo lavoro che nulla aggiunge di sensazionale alla sua discografia. Best tracks: “Faceless”, “ Night scene”, “Through a mother’s day darkly”. 7/10
KLAUS SCHULZE will release the new album "Deus arrakis" on 10th june 2022.
THE SMILE (Tom Yorke's) will release the new album "A light for attracting attention" on 13th may 2022.
ARCHIVE in tour:
Date in Italy: Roma, 08 november 2022, Auditorium Parco della Musica. Milano, 09 november 2022, Santeria Toscana 31.
DEAD CAN DANCE in tour:
Date in Italy: Padova, 27 and 28 may 2022, Gran Teatro Geox.
NICK MASON'S SAUCERFUL OF SECRETS in tour:
Date tour in Italy: Lucca, Piazza Napoleone, 25 june 2022, Torino, Sonic Park Stupinigi, 26 june 2022.
L’astronave ultracinquantenne è diretta ormai dal solo Thorsten Quaeschning sotto la supervisione della vedova del celebre timoniere Edgar Froese, Bianca Acquaye. A coadiuvare Quaeschning c’è Paul Frick e ancora Hoshiko Yamane, ad occuparsi degli archi. Scompare da qualsiasi credito Jerome Froese, il figlio da subito restio a far proseguire il viaggio musicale fondato dal padre, scomparso nel 2015. A precedere questo nuovo lavoro c’era stato l’EP “Probe 6-8” da cui vengono inclusi alcuni pezzi. “Continuum” apre l’album con un bel motivo al sequencer trainante ed a cui si aggiungono altre “voci di risposta”, il compito di lievitare subito l’ascoltatore è riuscito. Con “Portico” il tema si fa più complesso ed articolato pur restando ben sospesi dal suolo terrestre, il pezzo è a firma anche di Edgar Froese e non credo sia un caso che risulti così bello. I 19 minuti della successiva “In 256 Zeichen” sono occupati da lunghi tappeti sonori, intermezzi di violino, percussioni, note da DX7 che rimandano al periodo 80 e 90 ed un timido sequencer di base. Queste ariosità si perdono con “You are always on time”, l’atmosfera si fa più tenebrosa ed inquietante ma mai decisiva per un ripetuto giro armonico che non convince perché paradossalmente troppo dissonante. “Along the canal” invece sembra da subito un pezzo più compiuto, sapientemente costruito per un immersione forestale, ricca di canali, di acqua che sgorga e scintilla. Dopo l’ibrida, minimale e forse inutile “What you should know about endings” si arriva alla conclusiva “Raum”, che ha il contributo ancora di Edgar Froese. Parte come “In 256 Zeichen” ma nonostante l’incedere si faccia poi più frenetico non decolla mai, consiglio invece la versione “Gran River remix” su “Probe 6-8”, dove i sequencer sono molto più prominenti ed efficaci. Nonostante qualche bella “intuizione” non è un disco che si farà particolarmente ricordare. Best tracks: “Continuum”, “Portico”, “Along the canal”. 7/10
La grande attesa è durata sei anni dai “velocissimi” e poco convincenti ultimi lavori. Darius Keeler e Danny Griffiths fanno ordine sulla loro già indefinibile musica e consolidano gli ultimi membri della band per piazzare il loro capolavoro articolato in due CD e/o triplo LP. Nessuno può rimanere deluso da un lavoro che abbraccia comunque l’originario trip-hop, e poi il rock progressive, l’ambient e l’elettronica. Questa volta però tutto è chiaro ed ispirato e tutti sanno cosa fare. Già l’opener “Sorrounded by ghost” innesca aspettative importanti. Un motivo sospeso al pianoforte e la voce sussurrata di Lisa Mottram (novità della band) annunciano la più industrial, effettata ed astrusa “Mr Daisy”. Molto interessante. I toni si placano con la più introspettiva e ritmata, quasi rappata, “Fear there & everywhere”. Impeccabile costruzione compositiva. “Numbers” è rappresentativa del sound-Archive tanto vicino alla scena Bristol dei Massive Attack. Holly Martin gioca con un motivo parlato e mai cantato. Convincente. Cantata e bene da Holly è invece “Shouting within” su un motivo minimalista al pianoforte. “Daytime Coma” è il lungo viaggio ipnotico che caratterizza l’intero lavoro della band. Una magistrale immersione galattica all’inizio intrecciata da un pianoforte mantrico per poi snodarsi tra sequencer alla Tangerine Dream d’annata (migliore), il pezzo cresce ritmicamente e divinamente, e direi irresistibilmente fino ad esplodere! Se “Head heavy” doveva fungere da anonimo detonatore, così non è: in un contesto cinematografico Maria Q sa coinvolgere le sue proprietà vocali e si fa ricordare. “Enemy” vuol riprendere quello che “Daytime Coma” poteva aver trascurato, allora uno straziante Pollard Berrier conduce l'atmosfera enigmatica e darkeggiante fino a colorarla di un' avvincente e claustrofobica rincorsa tra sound industrial ed ambient alla Eno degli eighties. A Dave Pen è affidato l’inno a chiusura del primo CD, “Every single day”, astruso e per niente banale. L’elettronico rap di “Freedom” con cui parte la seconda parte è davvero originale e riuscito nella sua moderna chiave beatlesiana. Che dire dell’intima e straziante “All that I have”? Bella come la sua vocalist Holly Martin. Se avete voglia di canticchiare un refrain liberatorio in un ambient più delicatamente industrial c’è “Frying paint” e allora avanti tutta: “set this city alight, set this city alight”… E’ giunto il momento del single da brividi: “We are the same” convincerà dal primo ascolto, la voce di Holly affiancata da un bel motivo elettronico nel buio delle domande più esistenziali. Bellissima! Più ariosa e vitale nel suo gioco ed intreccio corale è “Alive”. L’arpeggio tastieristico di “Everything’s alright” è un altro magistrale motivo per apprezzare l’intero album, ancora un brano struggente e vincente di un convincente Berrier. Gli Archive non finiscono di stupire e scrivono un altro pezzo capolavoro per idee compositive e post produzione. Pensate ad una modernizzata “On the run” dei Pink Floyd e inseriteci la voce di Lisa Mottram, ne esce “The crown”. Non è finita qui, bisogna chiudere in “Gold”! Non vi sveglierete certo dall’ipnosi indotta con questo finale di raccapricciante bellezza: la puntellatura del pianoforte come un requiem che si trascina in un ambient claustrofobico per poi danzare più liberi ma sempre controllati da questi Archive che hanno imbrigliato trame irresistibili per cullarci in un vero viaggio sonoro, di rara bellezza, compostezza e completezza. Un disco che abbandona quasi completamente le fumosità chitarristiche per firmarsi di un’elettronica ispirata e decisiva. E se di questo non ne siete sazi, i nostri allegano anche la colonna sonora del documentario “Super 8”. Beh, superano ancora il già altissimo livello: ascotatevi “Super 8” e “Zeitgeist” se non ci credete. Abbandonatevi e restateci. Best tracks: “Daytime Coma”, “Enemy”, “We are the same”, “Everything’s alright”, “The crown”, “Gold”. 9/10
Quasi 40 anni di vita artistica assieme, fedelissimi. Anche i Rush lo erano, ma erano in tre. I Marillion mantengono la stessa line-up da quattro decadi: dalla breve “Era Fish” è il tredicesimo album da studio con Hogarth alla voce, e gli altri quattro inossidabili al loro posto sempre vivi, sempre ispirati, sempre appassionati, sempre fantastici. La storia dei Marillion è davvero fantastica: dal vivo lasciano sempre prove memorabili, suonano divinamente, come un orchestra; in studio si riuniscono ogni 3-4 anni e sfornano un nuovo album che quando non è un capolavoro è comunque bello ed emozionante. Sempre composti, sempre imperturbabili, una band che ha ormai il suo pubblico fedelissimo e non scende certo ora a compromessi. Dopo il mastodontico e meraviglioso “FEAR” era difficile ripresentarsi all’altezza. Ebbene, ci sono riusciti, ancora una volta! Più conciso ma sempre ricco. Nel corso degli anni il loro Prog abbandona sempre più la formula canzone e/o i tecnicismi fine a se stessi per orientare la loro musica in una formula più cinematografica, capace di insonorizzare immagini, di accompagnare una scena. Ogni pezzo è atomizzato al midollo e si articola minuziosamente, sfaldandosi e poi ricomponendosi. E’ difficile ricordarne uno proprio per la sua struttura complessa ed articolatissima. L’inizio è una bomba atomica (si fa per dire di un brano che canta proprio i problemi del nostro Pianeta): “Be hard on yourself” è tra le loro migliori produzioni di sempre. Parte con solenni cori femminili per lasciare lo scettro ad un arpeggio tastieristico a dir poco trascinante. L’inconfondibile timbro vocale di Hogarth mena le danze inseguito da un Mosley più scalpitante che mai. La chitarra di Rothery fraseggia poesia nei paraggi, come sempre. Kelly non si lascia pregare per un intermezzo intimistico ed ipnotico, solo preparatorio per un finale a dir poco sfuriato. Applausi scroscianti a tutti! “Reprogram the gene” passa inosservata dopo un inizio simile, ma dopo ripetuti ascolti ha il suo perché, nel suo piccolo. Rimanda al periodo “Afraid of sunlight”, quella leggerezza pop quasi strumentale dopo un inizio così emozionalmente impegnativo. Quaranta secondi di cinematografici “Only a kiss” introducono l’hit single “Murder Machines”, sbarazzina nel suo motivo ripetuto per farsi cantare live, non manca il Rothery d’annata. La seconda metà dona il meglio e “The crow and the nightingale” ne è il miglior preludio. Kelly sale in cattedra, tesse trame stupefacenti per un Hogarth strepitoso e quanto mai emozionante. Incredibile la fusione di ogni componente della band, ognuno estrae qualcosa di stupefacente e sempre attinente senza mai invadere. Mancavano solo i cori finali per i brividi da Marillion! E poi anche l’elettrica di Steve Rothery per tenere la scossa. Fortuna c’è “Sierra Leone” che lascia un pò il fiato per riflettere su cosa ci sta succedendo. Piano e voce, lenta e zuccherosa ballata che poi si trasforma ipnotica fino ad esplodere in un orchestra di brividi che ognuno di questi musicisti ha sontuosamente creato con un’inarrivabile varietà timbrica dei singoli strumenti. Il pezzo è un altiscendi complesso di atmosfere e ritmiche, magistralmente coese e di raro incanto. Si era sentito poco il basso di Trewavas, a lui si deve l’intro abissale ed enigmatico dell’ultima suite: “Care”. Il brano canta la sofferenza, di chi ci lascia per sempre e di chi ha dedicato la vita agli altri. Difficile descrivere un pezzo così articolato e bello da accecare la ragione. Le note di pianoforte in “Every cell-part” valgono da sole l’acquisto, poi mettiamoci anche l’assolo tagliente di un Rothery che squarcia l’anima e ci possiamo congedare e congelare in uno stato di grazia che solo certa Musica ha il potere di elargire. Grazie Marillion, non mi aspettavo ancora un simile capolavoro. Steve Hogarth, Steve Rothery, Mark Kelly, Pete Trewavas, Ian Mosley: angels on Earth. Best tracks: “Be hard on your self”, “The crow and the nightingale”, “Sierra leone”, “Care”. 8/10
NICK MASON'S SAUCERFUL OF SECRETS in tour:
Date tour in Italy: Lucca, Piazza Napoleone, 25 june 2022, Torino, Stupinigi Sonic Park, 26 june 2022.
Dopo gli incredibili eventi del 2020 che hanno stroncato prima il talentuoso batterista Sean Reinert e poi lo straordinario bassista Sean Malone (suicida), non sembrava esserci futuro per i Cynic che hanno visto demolita l’intera sezione ritmica. Paul Masvidal invece non si è dato per vinto ed ha voluto omaggiare i suoi amici e colleghi con questo nuovo capitolo. Musica della complessità e della difficoltà, fusione sonora di incredibili generi musicali. Quest’ultimo lavoro respira aria cosmica, proprio come un “multiverso dove gli atomi cantano”. Dave Mackay sostituisce Malone con un bass/synth e sono proprie le sue tastiere a spumeggiare sull’iniziale “The winged ones”, un vero gioiello tecnico. Gioiello compositivo è “Mythical serpents”, Matt Lynch mena sulle pelli come un forsennato, la voce di Masvidal echeggia epica come suo marchio di fabbrica. Dopo la spaziale e astrusa “DNA activation template” arriva l’altro capolavoro: “Architects of consciousness”. Devastante Masvidal sulla ritmica in un vero viaggio galattico. A queste vette il resto è una farcitura. Senza Reinert e Malone, Masvidal non credo potesse fare di più. Best tracks: “The winged ones”, “Mythical serpents”, “Architects of consciousness”. 7/10
Segnalo il decimo album di questa band britannica che fa il verso ai “God is an Astronaut”. Post-rock anche più sperimentale dei “GIAA”, direi grazie alla roboante presenza delle tastiere di Barry Burns. Il Sound è molto ricco e fascinoso, le idee quasi mai banali. Tanti pezzi godibili come “Here we, Here we…” che vede un interessante interscambio di timbri sullo stesso motivo, le atmosfere orientali e new age di “Dry fantasy”, l’unico pezzo cantato “Ritchie Sacramento” può essere un bell’hit, la marcia ipnotica di “Drive the nail”. “Pat stains” sembra uscita dai paesaggi dei “Sigur Ros”, come del resto l’iniziale “ To the bin my friend…”. Le migliori idee sono però su “Fuck off money”, lento e progressivo canto tutto in vocoder per un esperienza siderale, su “Midnight flit” in cui è dipinta un’ atmosfera misteriosa grazie all’ottimo lavoro di batteria e basso che struttura un esplosione variopinta di solenni impeti tastieristici, e sulla conclusiva “It’s what I want to do, Mum”, quasi un inno ai primi Porcupine Tree! Best tracks: “Fuck off money”, “Midnight flit”, “It’s what I want to do, Mum”. 8/10
Della loro lunga discografia e vita artistica possiamo affermare tutti che gli ultimi 20 anni hanno visto solo “Magnification” loro degno testimone artistico. Dopo 7 anni dal deludentissimo “Heaven & Earth” i nostri eroi (e sono tanti perché tanti i cambi di formazione) ci regalano l’ennesimo capitolo, con il consolidato Jon Davison, alter ego del mitico Jon Anderson. La partenza di “The ice bridge” è sensazionale, un pezzo magistralmente legato tra epicità, modernità e storia. Downes è ispiratissimo tra i synth e non da meno Howe nel suo fraseggio chitarristico. La linea melodica e portante della prima chitarra dialoga meravigliosamente con la seconda (ma è sempre Howe, l’ispiratissimo) e con i virtuosismi tastieristici di Downes, un incedere sostenuto dal basso portentoso di Sherwood. Davvero un pezzo già memorabile. “Dare to know” allevia i ritmi e ci conduce nei viaggi pindarici che hanno reso celebre la band. Forti sono i richiami seventies con orchestrazioni che si intrecciano nell’articolatissimo tessuto chitarristico dal sapore cinematografico. Complimenti! Le stesse atmosfere proseguono in “Minus the man” ma con idee decisamente più spente. Dal lontano Oriente sembra partire “Leave well alone” per poi subire innumerevoli trasformazioni: catchy anni 80, linee vocali che rimandano a “Starship trooper” ed incredibile lavoro di Howe sempre a collegare tutto. Interessante. Downes prova ad imbastire qualcosa per far decollare la successiva “The western edge”, ci prova anche la slide di Howe ma resta lo stesso abbastanza impantanata. Un delicatissimo brano acustico, arrangiato magistralmente, è “Future memories”, che gioca tra cori che si avvicendano in falsetto a Davison. “Music to my ears” la vedo più come demo delle prove vocali di Davison, capace di costruire da solo atmosfere come faceva Anderson, ma non posso negare il lavoro, soprattutto finale, degli arrangiamenti, tra archi, piano e cuciture tastieristiche varie. Il finale è affidato a “A living island” dove Davison alza ulteriormente il tiro creando un pathos meraviglioso. Il pezzo si avvale di un bel contributo di White nel drumming ed il solito Howe che spazia magistralmente tra i timbri diversi che lo hanno reso celebre. I tre brani del bonus CD sono anonimi. Un bel disco, con molti spunti interessanti e suonato alla grande. Best tracks: “The ice bridge”, “Dare to know”, “Leave well alone”. 7/10
MARILLION will release the new album "An hour before it's dark" on 04h march 2022.
ARCHIVE will release the new album "Call to arms & angels" on 08th april 2022.
PLACEBO will release the new album "Never let me go" on 25th march 2022.
RAMMSTEIN will release the new album "Zeit" on 29th april 2022.
JOE SATRIANI will release the new album "The elephants of mars" on 08th april 2022.
TANGERINE DREAM will release the new album "Raum" on 25th february 2022.
G R E A T N E W S: It's real THE REUNION OF ANATHEMA AND PORCUPINE TREE too!!!
PORCUPINE TREE will release the new album "Closure/continuation" on 24th june 2022.
PORCUPINE TREE in tour:
Date in Italy: Milano, 24 october 2022, Mediolanum Forum Assago.
DREAM THEATER in tour:
Date in Italy: Roma, 06 may 2022, Palazzo Sport. Milano, 07 may 2022, Mediolanum Forum. Padova, 08 may 2022, Kione Arena.
YES in tour:
Date in Italy: Milano, 16 may 2022, Teatro del Verme. Roma, 17 may 2022, Teatro della Conciliazione. Padova, 18 may 2022, Gran Teatro Geox.
LEPROUS in tour:
Date in Italy: Cremona, 17 july 2022, Luppolo in Rock.
MUSE in tour:
Date in Italy: Firenze, 17 june 2022, Firenze in rock.
Quindicesimo album per questa band ormai leggenda degli amanti del Metal Progressive. I primi probabilmente a portare il Rock ad un livello tecnico talmente estremo da averlo spesso ucciso concettualmente. E questo è avvenuto, a mio parere, nella primo decennio dei 2000 (da “Train of thought” a “Black clouds…”). Gli ultimi lavori li ho trovati davvero avvincenti, ben equilibrati tra tecnicismo e idee compositive, ritmi ipersostenuti e linee melodiche. Con quest’ultimo sembra ricominci una nuova trasformazione probabilmente dettata dai loro stessi fan che reclamavano i fasti metal di “Awake” o “Six degrees..”. E allora si attacca a mille subito con il singolo “The alien”, Petrucci si prende subito la scena e la porta avanti tra assoli (alcuni anche belli) e riff, devo dire ben seguito da un Mangini centrato; il pezzo in se resta comunque piatto. Con “Answering the call” si resta sulle stesse ritmiche ma con un Labrie che tira linee melodiche più convincenti e un Rudess con maggiore spazio. Poi Petrucci reclama la sua parte che svolge velocissima per diversi minuti. In fondo il pezzo mi è piaciuto. “Invisible monster” vorrebbe dare un pò d’ossigeno (si fa per dire) con un mid-tempo sulla falsa riga degli album appena precedenti ma il pezzo manca di un’ idea centrale ed è troppo prevedibile, alla fine sfiancante. Stessa musica per la successiva “Sleeping giant”, 10 minuti inutili, sono cattivo, lo so. Mai abbastanza se ascoltate la successiva “Transcending time”. Finalmente si cambia registro con “Awaken the master”, il pezzo è sempre tirato ma giusti e belli gli interventi di Rudess al piano e con le pad, e soprattutto LaBrie non sembra più “cantare a vuoto” e Mangini indaffarato come non mai! Si giunge alla tanto attesa suite finale in stile DT: “A view from the top of the world”. L’intro è davvero molto bello nel lento incedere degli archi da film kolossal, un bel lavoro tastieristico che poi presenta il riffone di Petrucci che fa partire le danze, da qui il pezzo evolve tra saliscendi in cui possono dimenarsi anche il basso di Myung (uno dei momenti migliori) ed il lavoro ritmico di Petrucci, che si fa preferire in questo caso alla solistica. Il finale è un pò stanco e quasi scomposto tra assoli e ripetizioni del tema. Dai temi trattati (alieni ormai terrestri che viaggiano nell’universo, alienazioni umane e disagi sociali) non emerge una musica coerente ad accompagnarne la narrativa. Non ho sentito un ambient cosmico e lisergico e questo a dimostrazione che le idee (ove ci fossero state) non erano chiare e convergenti in composizione. Sono comunque generoso. Best tracks: ”Answering the call”, “A view from the top…”. 7/10
L’inossidabile artista californiano è reduce da un attacco di cuore ed è stato letteralmente tirato su per i capelli, o per la sua celebre chioma. Altre vicende personali (divorzio) non sembrano aver scalfito la sua ispirazione, anzi sembrano averlo spronato ad una nuova vita artistica (uscita definitiva dai Fleetwood Mac) e voglia di generare ancora grande musica. Già da “Scream” si percepisce l’aria sbarazzina di un disco pop. Refrain affidati ai cori ed elettrica per i solos di questo chitarrista unico nel suo genere sono ben spiegati in “On the wrong side”, nel mezzo c’era stato il bel singolo “I don’t mind”. La ritmica di “Swan song” è interessante quanti i controcanti e gli interventi dell’elettrica, decisamente un gran pezzo per la sua interpretazione del tango. “Blind love” ha il refrain disincantato e coinvolgente dei settanta, strutturata come per un brano della sua band originaria. Voglia nostalgica di una notte vista oceano con la cover “Time”, scarna ed acustica. Con “Blue light” non si fa segreto la sua voglia sbarazzina che raggiunge quasi lo stucchevole ed un altro richiamo forte ai Mac più percussivi con “Power down”. If you go, if you go at “Santa Rosa” è il ritornello vincente di un lineare country-pop. Il buon Lindsey si congeda con la sussurrata “Dancing”, la sua voce ed il suo timbro unico che culla. Insomma un gran bel ritorno di un artista straordinario nella sua veste più matura e saggia. Best tracks: “On the wrong side”, “Swan song”, “Dancing”. 8/10
La bellissima voce prodigio che sostituì per un album Phil Collins nei Genesis si è costruita una dignitosissima carriera solista con una serie di album raffinati e spesso ispirati. Il suo rock melodico è sempre godibilissimo, con composizioni ben costruite, arrangiate e performate. L’album si apre subito alla grande con “You could have been someone”. Trascina subito, si fa cantare dal primo ascolto… un mid tempo pieno di pathos, impreziosito da un azzeccatissimo clarinetto. In “Mother earth” sono percepibili “reminiscenze world” alla Peter Gabriel, anche qui un azzeccatissimo refrain che trascina e si fa ricordare. Bravo il chitarrista Ali Ferguson, dal timbro gilmouriano. La più acustica “We knew the truth once” è il marchio di fabbrica di Wilson, ballata malinconica e coinvolgente. “I, like you” non è da meno, altro pezzo ispirato e godibilissimo. Ferguson fa un gran lavoro di modellazione attorno il cantato di Ray. La successiva “Amelia” poteva essere uscita dal repertorio più afro di Sting. E’ incredibile il talento di Wilson nel costruire melodie e refrain vincenti fuse all’interno di arrangiamenti impeccabili, ne è altra prova “The weight of man” nella sua semplicità. Ancora pregevole lavoro di Ferguson, soprattutto nel finale. Con “The last laugh” si cambia atmosfera, è una ballata ariosa e percussiva in cui emerge il gusto del fido drummer Nir Z. Le ballate proseguono ma si ritorna a quelle più nostalgiche con la breve “Almost famous “, anche questa si fa cantare subito. Il livello, se mai ce ne fosse bisogno, cresce ancora con “Symptomatic”. Un gioiello di poesia musicale che mi impongo di non commentare ulteriormente perché non merita parole ma solo ascolto e ascolto. La sussurrata “Cold like stone” si canta assieme intorno un falò, accompagnata con un bel arpeggio all’acustica. Il piano ed il violino della beatlesiana “Golden slumbers” era quello che mancava per chiudere questo piccolo capolavoro di rock melodico che accompagna perfettamente un bel viaggio in auto o moto tra i migliori paesaggi della nostra terra. Best tracks: “You could have been someone”, “I, like you”, “Symptomatic”. 8/10
Inaspettato seguito di “Pitfalls”, quello che doveva essere un EP che ne raccogliesse i pezzi esclusi diventa un vero album che vede sempre più forte la presenza degli archi ed ora anche gli ottoni dei Blasemafiaen. Il solito e vero protagonista resta comunque Einar Solberg, dominatore assoluto del marchio artistico e commerciale. Le composizioni si fanno sempre più articolate, complesse non tanto per le idee innovative ma per una voglia spasmodica di inserire nuovi timbri sonori, qualcosa di nuovo. Sin dalla partenza però si ha sentore sostanzialemnte di “aria fritta” perché il cantato di Solberg per quanto sontuoso ed impeccabile comincia a diventare prevedibile, almeno per chi conosce i loro ultimissimi album. Non è lui a seguire la musica ma quest’ultima ad adeguarsi alla sua volontà e credo sia questo aspetto ad indebolire le composizioni, per quanto contengano diversi spunti interessanti ed accattivanti. “Running low” parte come una inquietante sequenza cinematografica per poi esplodere con un refrain per farla diventare una hit con il suo “It’s a miracle, miracle, miracle…”. Beh, ci riescono perché i saliscendi strumentali sono notevoli, anche. “Out of here” spiega quello che introducevo: un pezzo dai ritmi blandi, suoni e melodie belle e sussurrate da una chitarra ispirata… poteva concludersi così, invece non resistono nel farla esplodere ancora con il vocalizzo di rito di Solberg. Bellissimo l’intro elettronico di “Silhouette” che si fonde perfettamente alla ritmica imbastita da Kalstad. “All the moments” ripete le caratteristiche di “Out of here” al piano e più malinconica me meno interessante. L’architettura sincopata e la chitarra stoppata sono le caratteristiche del sound dei Leprous, ed in “Have you ever?” sembrano raggiungere i picchi, un pezzo davvero sperimentale nella ritmica che attrae falsetti di archi e vocalizzi di Solberg in spolvero. Sulla chitarra ritmica è concentrata “The silent revelation”, raffinata nel suo gioco di archi ma prevedibile. Il rock più lineare di “The shadow side” potrebbe renderla un vero hit, contenente addirittura un guitar solo. L’arpeggio che introduce “On hold” promette tanto e bene, e mantiene le attese. Finalmente un pezzo tondo, compiuto… Solberg sontuoso, irresistibile, struggente, dai vocalizzi altissimi quando necessario. Meravigliose le chitarre sottotraccia ed i violini che enfatizzano la malinconia e l’inquietudine del pezzo. L’atmosfera resta pacata con “Castaway angels” che ha un incedere molto bello grazie al solito Solberg ispiratissimo ed emozionantissimo ed all’intreccio stellare della chitarra ritmica. Il finale del disco i Leprous lo dedicano d’abitudine con un pezzo Prog. “Nighttime disguise” vuole esaltare i singoli musicisti. Un saliscendi tra atmosfere tese ed inquiete e puntellature al piano che sviluppa poi un motivo accattivante con il cantato più basso di Solberg fino a chiudere con reminiscenze doom. Tanta “carne al fuoco” in questo disco fondamentalmente complesso, raffinato e con alcuni passaggi anche molto ispirati. Mi ripeto: è difficile anche fondere tanta strumentazione e lo hanno fatto bene, eppure non riesco a parlare di quel capolavoro che aspetto e che potenzialmente possono raggiungere. Forse è troppa la voglia di mettere tanto dentro a discapito delle idee, che spesso non hanno una direzione precisa ed esaustiva. Best tracks: “Silhouette”, “Have you ever”, “On hold”. 7/10
Finisce il viaggio dell'immenso artista il 18 maggio 2021 all'età di 76 anni.
"Niente è come sembra, niente è come appare, perché niente è reale"
"E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire"
"Organizza la tua mente in nuove dimensioni. Libera il tuo corpo da ataviche oppressioni"
"Emanciparmi dall’incubo delle passioni. Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male"
"Era magnifico quel tempo com’era bello quando eravamo collegati perfettamente al luogo e alle persone che avevamo scelto prima di nascere"
"Tornerà la moda dei vichinghi. Torneremo a vivere come dei barbari"
"Supererò le correnti gravitazionali lo spazio e la luce per non farti invecchiare"
"Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente"
"Questo secolo oramai alla fine. Saturo di parassiti senza dignità. Mi spinge solo ad essere migliore. Con più volontà"
"Non mi interessa sentirmi intelligente guardando in tv dei cretini, preferirei sentirmi un cretino di fronte a persone eccellenti"
"Peccato che io non sappia volare, ma le oscure cadute nel buio. Mi hanno insegnato a risalire"
"Questo sentimento popolare. Nasce da meccaniche divine. Un rapimento mistico e sensuale. Mi imprigiona a te"
La Colonna Sonora di una mostra a Parigi del fotografo Salgado nella foresta pluviale è la nuova scommessa musicale dell’istrionico guru dell’elettronica. Un viaggio nell’habitat primordiale intriso di fenomeni naturali che diventano un orchestra frammentaria di voci, cigolii, canti, ronzii in una vegetazione rigogliosa al punto da accogliere di tanto in tanto bip, pad, accenni di moog, suoni sintetici che non sembrano poi neanche aggiungersi ma diventarne parte. La parte 5 e 7 lo dimostrano. C’è Oxygene! La grande abilità di Jarre è stata proprio in questa intuizione: immergersi sinteticamente per diluizione nella vegetazione. Vi è entrato adagio per penetrarvi alla fine completamente e perfettamente. Best tracks: “part 5”, “part 7”, “part 9”. 7/10
LEPROUS will release the new album "Aphelion" on 27th august 2021.
DREAM THEATER will release the new album "A view from the top of the world" on 22th october 2021.
YES will release the new album "The quest" on 01th october 2021.
IN STUDIO FOR NEW ALBUM: MARILLION, DAVID KILMINSTER, MUSE, ARENA; ARCHIVE, STAR ONE, RAY WILSON, TANGERINE DREAM, THE SMILE (new TOM YORKE's project)
L’innesto di Jordan Rudess nei Dream Theater frenò l’ascesa della superband strumentale di Portnoy e Levin che vedeva riprodurre gli stessi elementi. Così, dopo 22 anni, decidono di tornare in studio e misurare la loro ispirazione per regalare ai propri fans un terzo album. “Hypersonic” dà inizio alle danze nel modo più prevedibile: virtuosismi tecnici e rincorse tra gli strumenti al fulmicotone, verso un dove sconosciuto però… un brano senza una direzione compositiva. “Beating the odds” invece la direzione c’è l’ha: un ritorno a sonorità anni 80 e 90, soprattutto con un tastierismo molto catchy. Levin si fa sentire bene nella successiva “Liquid evolution”, all’interno di un ambientazione world è la sei corde di Petrucci a dirigere un brano breve ma bello. “The passage of time” rimanda direttamente al loro Deus ex Machina: Dream Theater al 100%, quelli meno melodici. “Chris & Kevin’s amazing odyssey” aspira ad essere forse una sperimentazione strumentale crimsoniana ma non decolla mai. Allora “Rhapsody in blue” di Gershwin diventa il miglior modo per sperimentare su quello che è già stato leggenda, ognuno dei musicisti ne dà una chiave interpretativa diversa ed originale, forti delle loro possibilità tecniche. “Shades of hope” vuole essere un intimo inno chitarristico… ma sia Petrucci che Rudess sono scontati e stucchevoli. Intricatissima è la finale “Keys to the imagination”, ancora tanto tanto Dream Theater dal tono arabeggiante, in un trupudio di scale minori. Un bonus disk di oltre 50 minuti rinfranca fan e addetti anche sul lato jam session e jazz fusion. I nostri eroi si sono certamente riscaldati bene le dita, ma a me non hanno riscaldato molto il cuore e davvero poco anche il cervello. Best tracks: “Liquid evolution”, “Rhapsody in blue”. 6/10
Decimo album per la band irlandese e vicini al ventesimo anniversario del loro post-rock e per qualcuno krautrock. Il disco è più tirato e metal del precedente ed è stato richiamato in scuderia Jamie Dean a dar maggior vigore alle chitarre dei fratelli Kinsella. L’intro è affidata ad “Adfrit” ed è il pezzo più convincente dell’intero set. Riffing incalzante e chitarre distorte hanno respiro in un lungo intermezzo più disteso, arpeggiato e melodico. Anche “Burial” prosegue sulla scia di un bell’arpeggiato, puntellato dal pianoforte per sfogare poi nel loro marchio di fabbrica di riffate che si chiamano e si rincorrono. Da questo momento, in un atmosfera cupa e claustrofobica, è un continuo ripetersi, anche in quella che è la loro intera discografia. “In flux” e l’ancor più tirata “Spectres” avanzano noiosamente. “Fade” ha invece, e quantomeno, delle interessanti soluzioni con un bell’incedere ritmico, sospinto da un gioco di synth e basso cavalcante a variare un pò il sound trainante e complessivo. “Barren trees” riporta ai vecchi God is an astronaut, ipnotici ed eterei. A chiudere la più intima ed acustica “Luminous waves”. Insomma, un disco che non ha picchi per farsi ricordare. Best tracks: “Adrift”, “Burial”, “Fade”. 6/10
THE PINNEAPPLE THIEF in tour (DATE REVISITED FOR PANDEMIA):
Date in Italy: MILANO, 23 february 2022, Live Club of Trezzo sull'Adda, RONCADE (TV), 24 february 2022, New Age Club, ROMA, 25 february 2022, Auditorium Parco della Musica. FIRENZE, 26 february 2022, Viper Theatre.
L’inarrestabile, e direi anche infaticabile, guru del Prog lancia sul mercato un disco che era già pronto per l’inizio del 2020 (con relativo e pianificato tour), ma l’avvento del “progetto Covid“ ha fatto posticipare l’uscita per ragioni ovviamente di marketing. E visto che il disco era stato annunciato con chiari intenti commerciali e aperture verso un pubblico sempre più ampio, la decisione era obbligata. Questo straordinario artista è rimasto sempre coerente come pochi: ha dedicato la sua vita alla Musica (ora si è anche sorprendentemente sposato!) e ha sempre voluto esplorarla in tutte le sue forme, attraverso tanti progetti, band, collaborazioni ed artisti di ogni estrazione musicale. Non elenco qui ed ora il suo lungo ed articolato percorso, dai Porcupine Tree ad oggi. Già con il capolavoro “Hand, cannot erase” aveva iniziato ad esplorare sonorità più moderne e danzerecce, non facendo mai mistero della sua passione per l’elettronica. Con il penultimo “To the bone” aveva mantenuto la sua band di base, musicisti consolidati nell’ambiente Prog, ora, qui, li abbandona senza indugi per fare un vero disco pop. I suoni si fanno asciutti, sintetici ed acidi… in linea con il progetto grafico ed il tema generale trattato nell’album: la società degli algoritmi e della dipendenza dai social manipolatori, della shopping terapia fuori controllo e dell’individuo senza un identità. L’intro è affidata al breve beat di “Unself” che apre le porte invece a “Self”, un inno alla dance dei novanta intrisa della sensualità ritmica di quel Prince già molto “citato” in “To the bone”. “King ghost” si veste di una serie di vocalizzi davvero inediti per uno Steven che vuol calarsi nel seducente ruolo di pop-star, la musica lo accompagna nell’incedere di un sussurrato drum and beat, molto coinvolgente. La successiva “12 things I forgot” è un single a tutti gli effetti, è suonata in un modo più classico e con un refrain avvincente. Se “Permanating” aveva tanto fatto discutere su “To the bone”, questa “Eminent sleaze” non sarà da meno: è un funk groove con coretti parecchio discutibili. Finalmente arriva il pezzo più bello, direi meraviglioso: la floydiana “Man of the people”. Una base dettata da un rullante effettato in cui si tesse la voce del nostro Steven, sempre più bella all’interno di una melodia sequenziata, e come su “Perfect life” diventa un crescendo incantevole in cui trova spazio anche un azzeccatissimo vocoder. La più lunga e centrale “Personal shopper” rappresenta l’inno dell’intero disco, sintesi di un elettronica moderna e danzereccia alla Giorgio Moroder, canti e controcanti si intrecciano e conducono ad un finale acido ed effettistico, un viaggio che mi ha ricordato la lontanissima, primordiale “Voyage 34” con i Porcupine Tree. La successiva “Follower” può apparire pop song dal ritornello ruffiano e banalotto, in realtà è costruita in un modo geniale con un utilizzo dell’elettronica impeccabile ad ogni estremo, così ben fusa con gli strumenti classici che menano le danze, piano e batteria su tutti. Il finale, come spesso accade nella sua produzione, è affidato ad un pezzo intimista e pacato. “Count of unease” scompare tra suoni ambient e pad. Sicuramente è un disco che può destare perplessità e malcontento, per la sua ipersemplicità e scontatezza compositiva… ma può essere anche contagiato dai temi trattati, allora si, ancora una volta geniale e provocatorio. In ogni caso preferisco un artista che si espone in tutte le sue esplosive sfumature che quello che si ripete furbescamente nel prodotto che gli ha dato successo. Best tracks: “Man of the people”, “Personal shopper”, “Follower”. 7/10
Con impeccabile periodicità Arjen Lucassen ci propone una sua nuova opera, sempre qualcosa di magnificiente e complesso. Questa volta nulla di fantasy o fantascientifico, una storia di epoca vittoriana con il coinvolgimento di innumerevoli interpreti, più teatrali che musicali. Il genere ormai non ha molta attinenza con quello che tratto in questa sezione musicale del mio sito, siamo sempre più verso il folk, le atmosfere celtiche e pompose, continui intrecci di cantati un pò ridondanti e stancanti (oltre 80 minuti!). A parte qualche pezzo più propriamente rock con le dovute sperimentazioni (Fatum Horrificum, Message from beyond, Hopelessly slipping away, She is innocent) non mi sento di giudicare il resto.
Già con l’ultimo “V” del 2017 Aviv Geffen aveva preso le redini del comando o Steven Wilson si era defilato per i suoi innumerevoli impegni solistici e non. Con un sound ed un pubblico ormai collaudato esce l’ennesima raccolta di pop songs che non sembrano suscitare grandi entusiasmi. L’opener “For the music” è però una gran partenza dai toni epici ed intrisa di reminiscenze elettroniche, con refrain irresistibile. Le sonorità di “After all” riportano direttamente ai quei primi album di grande successo: melodie puntellate al piano e cantato struggente e malinconico. “Garden of sin” è una ballata acustica nella quale emerge la voce lamentosa e profonda di Geffen. Ritmi più sostenuti, voce vocoderizzata ed ancora un refrain vincente che si fa cantare e ricordare in “Under my skin”. Atmosfere sussurrate e malinconiche avvolgono il primo pezzo cantato da Steven Wilson che corrisponde a “Over & over”. “Falling” è un pezzo che poteva far parte delle ultime produzioni soliste di Wilson ma il refrain richiama fortemente a quella bellissima e lontana “Hello”. Ancora Wilson presta la voce in “White nights”, un pezzo pop alla Blackfield 100%, ma senza picchi emozionali. L’atmosfera leggera, giocosa e disincantata di “Summer’s gone” è talmente esasperata da far apparire il pezzo decisamente melenso. “It’s so hard” è una bella ballata intimistica al piano e voce che chiude il disco, un disco piacevole, che aggiunge altre buone pop song nella loro produzione ma senza nuovi picchi da ricordare. Best tracks: “For the music”, “Under my sky”, “It’s so hard”. 7/10
Grande ritorno carico di aspettative per la progressive metal norvegese che dopo ben 23 anni si ritrova ancora insieme per registrare nuovi pezzi. L’istrionico e talentuoso vocalist Roy Khan aveva trovato nei più facili Kamelot la prosecuzione dell’attività dopo la dipartita avvenuta con il controverso ma interessantissimo “Flow”. Il disco esce senza una label di riferimento che potesse celebrarli degnamente, quindi in versione autoprodotta ed indipendente. La breve intro dai toni epici di “In: Deception” apre le danze per la carichissima “Of raven and pigs” nella quale la voce di Khan trascina sempre nell’incedere granitico del pezzo. La successiva “Waywardly broken” è il singolo e chiama all’appello il mitico chitarrista Tore Ostby, acido nella ritmica e limpido nella solista. “No rewind” passa in sordina nel suo “già sentito”. Il mid tempo melodico di “The mansion” ha un refrain coinvolgente con la partecipazione di un controcanto femminile, peccato per il solo di Ostby un pò sconclusionato. “By the blues” è il pezzo più astruso dell’album, ben costruito e performato. Anche “Anybody out there” poggia su un refrain vincente ma il pezzo povero e meno interessante di “The mansion”. Molto più articolata ed acida è “She dragoon”, pezzo dalla ritmica davvero coinvolgente e ben accompagnata da un Khan in gran spolvero. La chiusura è affidata ad un pezzo recuperato del 2018, “Feather moves”. L’ugola di Khan firma il pezzo più compiuto, un refrain da brividi. Il disco non fa gridare al miracolo, nulla di sconvolgente ma contiene diversi pezzi che valorizzano il talento di Khan, ed è un gran piacere riascoltarlo, a differenza della prestazione anonima di Ostby alla chitarra solista. Best tracks: “The mansion”, “She dragoon”, “ Feather moves”. 7/10
Dopo “Night” e “Tik Tok” sono passati altri 5 album ma nessuno di questi ha raggiunto quei vertici emozionali che la loro musica vuole trasmettere. Chi li conosce e li ascolta sa cosa aspettarsi: rock atmosferico, lentissimo e fortemente evocativo e malinconico; e soprattutto nessun orpello solistico. L’opener “Space cowboy” è l’epica e lunghissima composizione in pieno stile Gazpacho, priva di struttura portante ed una melodia solidificante, il pezzo si costruisce e avanza sorprendente sempre: l’inizio ha un cantato coinvolgente accompagnato dal piano e pad atmosferici per poi esplodere tra riff e canti gregoriani, l’impeto scema e ci prepara un finale astruso tra fughe tastieristiche e controcanti gregoriani. “Hourglass” sembra voglia sintetizzare in pochi minuti quanto precedentemente ascoltato, tra mellotron, organi, violini e canti gregoriani… ovviamente senza alcun filo conduttore. Le sonorità orientaleggianti di “Fireworker” sembrano renderlo un pezzo interessante ma poi cambia improvvisamente in numerose ed indescrivibili direzioni sonore ed è stato bravo il nuovo batterista Robert Johansen a tener testa! La successiva “Antique” procede anonima nel cantato monocolore di Jan H. Ohme. A “Sapien” è affidato il finale, ed è un altro lungo ed articolato pezzo. Inizia in un atmosfera sospesa tra pattern elettronici e pad di rara bellezza e solennità, il cantato accompagna a dovere e tra varie e brevi esplosioni e divagazioni chitarristiche si chiude sommessa e delicata come nella loro tradizione stilistica. Insomma, a parte questi 2 lunghi pezzi ricchi di spunti interessanti e coinvolgenti, l’album mi resta sconclusionato, o troppo articolato, senza mordente e senza quasi più nemmeno gli arpeggi gustosi di Vilbo o il violino di Kromer.
Best tracks: “Space cowboy”, “Sapien”. 6/10
Abbandonato definitivamente il progetto/sfida “ASIA featuring John Payne” nel rispetto del defunto John Wetton, l’indomito polistrumentista John Payne dà seguito al primo ed omonimo “Dukes of the orient” con un secondo capitolo. Se il guitar-hero Guthrie Govan lo aveva portato su sentieri metal-prog con i GPS, qui è il tastierista Erik Norlander a trascinarlo verso un Aor dal gusto vintage e tratti di Prog americano, sonorità che lo distinguono anche dal loro primo album e che farà felici i più attempati rockers dei seventies o eighties, deliziati di un quasi onnipresente sax. L’apertura è affidata alla genesisiana “The Dukes return” con un Norlander che fa chiaramente il verso a Banks ed un finale che rispolvera i Supertramp anche solo per l’intervento del bel sax di Eric Tewalt. La successiva “The ice is thin” è costruita sul pianoforte e voce inconfondibile di Payne, un midtempo che rimanda a quel bellissimo “Arena” degli “ASIA feat J.P.” ed ancora ai Supertramp con Tewalt che sembra la controfigura di John Hellywell. “Freakshow” addirittura ci sembra riportare agli "Emerson/Lake/Palmer“ nella sua complessità e teatralità, gran lavoro di Norlander che si dimena sapientemente anche sull’hammond. “The monitors” è più moderna negli arrangiamenti e nelle sonorità, refrain trascinante come Payne sa bene imbastire e divagazioni tastieristiche. Il Prog avanza nella bellissima “Man of machine”, che distribuisce virtuosismi per tutti, ed anche Alex Garcia si è così presentato alla chitarra elettrica. Finalmente arriva la ballad di Payne e sono brividi, “The last time traveller” è un inno per la sua magnifica voce e contiene un lungo intermezzo di soli strumentali per ogni gusto: hammond, wurlitzer, sax e chitarra elettrica. “A quest for knowledge” riporta indietro a Yes, Kansas, e Styx e quindi chorus che si amalgamano in modo stupefacente ai più arditi soli e timbriche dei musicisti (Payne si espone anche in un bel guitar-solo). Emerson è chiaramente il mentore di Norlander ed il lavoro che fa sulla bella strumentale “The great brass steam Engine” è sensazionale, tutto quello che è possibile utilizzare dal suo vasto apparato tastieristico vi è qui condensato. Gli “ASIA” di “Arena” riaffiorano in una “When ravens cry” che sciorina il versatile e sempre più sorprendente repertorio espressivo di Payne. Il finale è affidato al carezzevole Aor di “Until then”, forse datato ma sempre affascinante perché quando lo forniscono musicisti di questo calibro nulla è mai scontato, basta godersi gli ultimi due minuti del pezzo. Non nascondo che l’intero album l’ho apprezzato sempre più dopo ripetuti ascolti e questo per sottolineare come i grandi musicisti sanno farsi scoprire poco per volta!
Best tracks: “Man of machine”, “The last time traveler”, “Until then”. 8/10
Non era facile trovare un nuovo eroe del Prog pari a Steven Wilson dei Porcupine Tree ed invece possiamo ufficialmente annunciare che c’è, esiste, e si chiama Bruce Soord. Forse non si può più parlare di Prog nel suo senso storico ma di eroe musicale a tutto tondo. Già con “Dissolution” la band aveva sterzato su lidi più commerciali e sintetici, un disco modellato per esaltare il nuovo batterista: sua maestà Gavin Harrison. Con quest’ultimo “Versions of the truth” è confermata la svolta. L’artwork di copertina ben descrive i contenuti: epoca di confusione, le informazioni sono enigmatiche per la ricerca di una verità. Questa sospensione o precarietà è percepibile anche musicalmente. Mi spiego con ordine: si inizia con la splendida “Versions of the truth”, parte sussurrata per esplodere in magistrali arrangiamenti vocali supportati da una ritmica impetuosa, il puntellamento del piano e del cantato malinconico di Soord richiamano ai Genesis di gloriosa memoria…un peccato finisca così, sul più bello. “Break it all” è godibile quanto sentita e la successiva “Demons” poteva essere un bel pezzo per il Bruce Soord solistico, refrain che si fa ricordare in un atmosfera acustica ed intimistica. La ballata di “Driving like maniacs” è davvero bella e suggestiva, atmosfera sussurrata che si fa cantare, in macchina o in riva al mare alla vista di un tramonto…ma bisogna fare alla svelta perché dura poco! Si resta sulle stesse frequenze con “Leave me be”, tre accordi portanti per il ritornello e piccole divagazioni per un altro pezzo piacevole e nulla più. Il wurlitzer dei Supertramp affiora nella sussurata “Too many voices” che anticipa il pezzo più elaborato e interessante del nuovo lavoro: “Our mire”. Tutto il repertorio emerge in modo bilanciato ed efficace, ritmica superlativa, refrain vincente e note chitarristiche che rimandano a Steve Rothery dei Marillion. Ancora ultimi Marillion emergono nella bella “Out of line”, cadenzata e tanto cantabile. “Stop making sense” è un altro pezzo accennato, delicato, ben costruito e arrangiato. La chiusura appartiene alle misteriose atmosfere di “The game”, pezzo straordinario costruito sul saliscendi di un organo da brividi, accompagnato maestosamente dalla ritmica di Harrison e dalla voce sussurrata di Soord…ma non è possibile lasciarlo finire così, almeno un assolo chitarristico era dovuto, era perfetto. Insomma, se i nostri volevano lasciare musicalmente il segno di sospensione di questi cupi tempi ci sono riusciti in modo geniale ma per me resta solo un bel disco, dal vero potenziale inespresso.
Best tracks: “Versions of the truth”, “Driving like maniacs”, “Our mire”, “The game”. 7/10
La dimostrazione tecnica della band teutonica è stata ampiamente comprovata con il “Live from Hamburg” e le loro interessanti soluzioni musicali già con ottimi album come “Avoid the light” e l’ultimo “Boundless”. Ora il quartetto tedesco ha voglia di raccogliere anche consensi commerciali che superino l’etichetta di “nuovi Tool”. Il viaggio si preannuncia interstellare già con l’opener “Curiosity part 1” che poi esplode, nella part 2, in una ritmica equiparabile a “Voyage 32” dei Porcupine Tree! La successiva “Hazard” è il marchio di fabbrica della band: arpeggi chitarristici che dialogano perfettamente in un contesto ipnotico, cosmico e sempre dinamico ad esaltare i due chitarristi Jordan/Funtmann. L’elettronica si fa sempre più fitta in “Voices”, i Kraftwerk che incontrano le vecchie produzioni di Alan Parsons Project potrebbe entusiasmare ma il pezzo poi dirotta su sentieri troppo sentiti e scontati del loro sound. La breve “Fail/Opportunity” invece è più originale se non altro per il coraggioso dialogo di basi elettro-percussive con un violino che dirige l’intero motivo. Entriamo ora nel cuore cosmico con i rimandi ai Tangerine Dream di “Immunity”, un moog ossessivo spazzato via dal fin troppo conosciuto lavoro del duo chitarristico. “Sharing thoughts” suona molto per il precedente album “Boundless”, ma è bellissima nel suo crescendo ritmico. “Beyond your limits” è l’unico pezzo cantato ma lo menzionerei solo per l’ottimo basso di Hoffmann. “True/negative” vuole solo introdurre, nella sua base elettro-industrial, il finale introspettivo e floydiano di “Ashes”. Il tentativo di introdurre elementi nuovi e ariosi nel loro sound per limare la pesantezza ossessiva delle loro composizioni è apprezzabile ma non convincente, mi sembra abbiano voluto mettere al fuoco troppa carne facendo un pò confusione. Io preferisco allora la versione genuina, cruda e diretta del precedente “Boundless” nell’attesa rimodulino la loro versione più originale o commerciale, di cui capisco c’è necessità.
Best tracks: “Curiosity”, “Hazard”, “Immunity”. 7/10
AYREON will release new album "Transitus" on 25th september 2020.
Inarrestabile la sua produzione musicale, ora sempre più impegnata nel sociale. Con “All visible objects” si torna alla formula che lo ha portato al successo: tecno-dance-ambient molto avvicinabile a quel sottovalutato “Destroyed” di quasi un decennio fa. Subito l’inno tecnopercussivo di “Morningside” per una dance tribale ed anche suggestiva, perché Moby sa come essere originale e fare un disco che “acchiappi”, per questo trovo interessante l’utilizzo di un inspiegabile organo. Una frase, stile “Porcelain”, ai tasti d’avorio è la struttura portante della bellissima “My only love”, che alla sublime voce di Mindy Jones annovera tappeti tastieristici davvero coinvolgenti. Ancora tecno-dance tribale con “Refuge”. “One last time” è lo standard classico del disco: atmosfera ambient e voci sintetizzate e sussurrate. Con la successiva “Power is taken” si torna ad una tecno molto cibernetica, e chi avesse bisogno di un momento più riflessivo è accontentato dall'interpretazione vocale di Apollo Jane in “Rise up in love “. Da questo momento i pezzi diventano sempre più ambient ed eterei: bellissima “Forever”, in cui vi confluisce tutto il repertorio del Moby ipnotico, ed interessante anche la più intima e fin troppo lunga “Too much change”. C’è spazio anche per l’ambient più minimal di “Separation”, un piano puntellato nello stile di Brian Eno. “Tecie” è un ulteriore viaggio ipnotico tra sommessi ritmi tribali e stilosi tappeti tastieristici. Il finale è sviluppato da un lungo e lento fraseggio al pianoforte potenziato da un synth che evochi anche quel tono drammatico alla malinconia generale di questa “All invisible objects”. Bel disco ma senza picchi che si lasciano ricordare a lungo.
Best tracks: “My only love”, “Forever”, “Tecie”. 7/10
Il loro esordio “Identity” li lanciò tra le migliori prospettive del panorama progressive di stampo floydiano. Dopo undici anni giungono al quinto tentativo di conferma tra diversi lavori un pò spenti, stanchi, troppo scontati, forse a causa della creatività in parte mozzata di Bjorn Riis. Il chitarrista più gilmouriano del circuito mondiale ha dedicato infatti alla carriera solista molte idee buone, utilizzabili nella sua band. Questo “A day at the beach” invece sembra partire col piede giusto: “Machines and men” preannuncia un certo grado di elettronica di fondo, interessantissimo. In un cyber-atmosfera il brano cresce nelle ritmica ed il cantato di Tostrup si sposa perfettamente. Bello il refrain, bello il solo di Riis, un magnifico inizio! La prima parte di “A day at the beach” è un breve e pacatissimo accenno della successiva seconda. Prima però ci sono “Into the unknown”, che sembra uscita dai Radiohead più minimal nella prima parte e dai Pink Floyd di “Division bell” nella seconda, e “Sunsets” una vera summa del loro stile musicale e delle loro capacità tecniche (Riis ancora in grande evidenza). Si giunge al cuore dell’album dopo le belle premesse descritte: la seconda parte di “A day at the beach” è tra i vertici assoluti della loro produzione. In un ambiente cosmico e very dark si staglia un arpeggio vincente e ripetuto come un mantra che ci proietta in un salto quantico, onirico ed emozionale. Il fraseggio finale di Riis è la classica ciliegina di un capolavoro. Non paghi del loro incredibile lascito, i ragazzi norvegesi ci catapultano direttamente nelle atmosfere del loro monumentale “Identity”: “ Megalomaniac” è un vero tributo alle atmosfere di quell’album. Lenta, trascinata da un arpeggio magnifico e dalla voce straziata di Tostrup culmina ancora nella feroce performance di Riis, impagabile questa volta nel suo apporto all’album. Forse non è al livello di quel best seller d’esordio, ma “A day at the beach” è da avere assolutamente nella propria collezione soprattutto con le premesse di quest’ elettronica che potrà fare la differenza non solo creativa per il futuro della band.
Best tracks: “Machines and men”, “A day at the beach p.2”, “Megalomaniac”. 8/10
BLACKFIELD will release the new album "For the Music" on 02th october 2020.
FISH will release the new album "Weltschmerz"" on 25th september 2020.
GAZPACHO will release the new album "Fireworker" on 18th september 2020.
THE PINNEAPPLE THIEF will release the new album "Versions of truth" on 04th september 2020.
DUKES OF THE ORIENT will release the new album "Freakshow" on 07th august 2020.
LONELY ROBOT will release the new album "Feelings are good" on 17th july 2020.
Dal suo “surf” capolavoro del 1987 la marcia produttiva del guitar-hero è stata inarrestabile e costante, e con questo “Shapeshifting” siamo al diciassettesimo sigillo. Satriani presenta la line-up (Chris Chaney al basso e Kenny Aronoff alla batteria) con la sua stilistica “Shapeshifting” giocata su una sua frase melodica ripetuta e lavorata come lui sa magistralmente fare. “Big distorsion” ha un sentore “Aor” alla Toto o Journey. Arriva la prima ballad e con essa le prime vere emozioni, “All for love” ha fraseggi meravigliosi. Più articolata e complessa da un punto di vista compositivo è l’orientaleggiante “Ali farka, dick dale…”. Ritmica secca e bluesy accompagnano come una jam la performance di Joe in “Teardrops”. “Perfect dust” è un rock-blues esemplare e coinvolgente, dal mood cangiante. La successiva “Nineteen eighty” è un bel demo (anche primo “single”) del suo vasto repertorio. Anonima “All my friends are here” e più interessante la più veloce e trascinante “Spirits, ghosts and outlaws”. Atmosfere soft ed arrangiamenti ben congeniati e costruiti per “Falling stars”, ancora fraseggio chitarristico in bell’evidenza. Sul pianoforte ruota la breve e splendida “Waiting” magistralmente puntellata dall’elettrica. Se il disco voleva essere più sperimentale, non poteva mancare anche un reggae personalizzato (“Here the blue river”) e un country finale (“Yesterday’s yesterday”). Ancora una volta un bel disco di Satriani, non sempre riuscito ed ispirato… ma ammirevoli anche solo le buone intenzioni di cercare qualcosa di diverso, nuove soluzioni in un genere ormai saturo.
Best tracks: "All for love", "Falling stars", "Waiting". 7/10
Nick Barrett non ha mai fallito e non poteva farlo dopo 6 anni dall’ultimo “Men who climb mountains”. Ritorno a sonorità più leggere, ariose e prog dei primi lavori, quelli degli anni 90’, quelli che li hanno cristallizzati tra le migliori band prog britanniche e non solo (e lo si capisce anche dall’artwork tornato ad uno “stile artigianale” dopo le “avvisaglie digitali”) . Solita line-up a parte il ciclico saliscendi “sulle pelli”, ora figura l’ottimo Jan Vincent Velasco alla batteria. Già dall’iniziale “Everything” si percepisce il cambio di direzione stilistica dagli ultimi lavori più metal e sperimentali, una specie di inno del loro sound degli esordi, con proprio tutti gli elementi compositivi che li hanno caratterizzati. La successiva “Starfish and the moon” è un altro pezzo alla Pendragon, questa volta meno ritmo e tanto sogno: la voce di Barrett accompagnata dal piano in un atmosfera eterea e carezzevole. Con questo riscaldamento si impenna l’asticella forse al picco massimo: “Truth and lies”. Contagioso arpeggio di chitarra barrettiana, sostenuto da tappeti tastieristici degni del miglior Nolan aprono il pezzo fino ad esplosione sonora da brividi. Assolo struggente, stiloso, gustoso, straordinario all’elettrica di Barrett degna del miglior Gilmour. Ancora un inchino a questo straordinario chitarrista che trascina come pochissimi sul manico della sua tastiera. Ogni sua nota è una gemma nel cuore...e si riacquieta ancora nel bellissimo arpeggio iniziale. “360 degrees” rappresenta la voglia più spudorata di recuperare certe radici folk con tanto di violini e mandolini (ukulele) che firmano il pezzo più barocco dell’album. Solo una parentesi perché “Soul and the sea” ci ricatapulta nelle atmosfere di “Truth and lies”: ancora arpeggi e violini di fondo e da preludio, 4 note sospese (ma ben impresse) al piano ed il brano esplode in un refrain irresistibile. Nolan detta i tempi e Barrett lo segue in un tripudio vorticoso, carico di elettricità e pathos maestoso. Bellissima! Non c’è tempo di rifiatare perché la successiva “Eternal light” parte subito carica e con grande ritmica di Velasco. Questa volta gli arpeggi si alternano tra quelli di Nolan e di Barrett e comunicano con un falsetto di cori tastieristici fino all’ennesima esplosione chitarristica di Barrett che prima rimarca il motivo con la sei corde e poi finisce in un altro assolo favoloso, tenendo le note come in pochi sanno fare. Tutto verrà giustamente ripetuto ed intervallato da notevole intermission tastieristica. Entusiasmante! Serviva un brano decompressore e giunge la pacata “Water”, che permette prima a Velasco di dimostrare velatamente tutto il suo gusto e poi a Barrett di tirare fuori l’ennesimo guitar-solo da applausi scroscianti. Le note di pianoforte su “Whirland” richiamano prima il romanticismo dei Genesis e poi la pomposità degli Yes (Wakeman) fino all’inserimento di un sassofono che segna il pezzo in un’inconsueta e rarefatta atmosfera. C’è ancora spazio per articolare un brano più tirato ed epico, da collegamento con l’album precedente, prog puro alla Pendragon che riconsegna lo scettro a Barrett, si dimena tra cantato (molto riuscito), acustica in accordi e arpeggi e poi solo sulla sua fida elettrica ben accompagnato dai tamburi di Velasco. A chiudere questo bellissimo album servirebbe una specie di “Am I really losing you?” e quindi ci è servita una degna gemella, costruita più sul lavoro di Nolan, egregio ed ispirato chiude con una sequenza tastieristica che lascia il segno, al cuore. Non ha invenzioni o genialate ma è tra gli album più belli della band assieme a “Not of this world” e “Passion”, dopotutto i Pendragon hanno sempre mantenuto un altissimo livello di Musica (incompresa ai più).
Best tracks: "Truth and lies", "Soul and the sea", "Eternal light". 8/10
CONCEPTION will release the new album "State of deception" on 10th april 2020.
AIRBAG will release the new album "A day at the beach" on 19th june 2020.
STEVEN WILSON will release the new album "The future bites" on 12th june 2020
STEVEN WILSON in tour:
Date in Italy: Milano, 23 september 2020, Mediolanum Forum Assago.
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