Il momento difficile per la produzione musicale riguarda anche e soprattutto le prog band, fare e divulgare musica di qualità è sempre più difficoltoso e per questo la band scozzese riemerge dopo oltre 12 anni dal loro ultimo “XXV”. Line up storica con Alan Reed alla voce, Ronnie Brown alle tastiere, Niall Mathewson alle chitarre, Graeme Murray al basso ed alla batteria? Non si sa, non è citato nei crediti del disco e neppure sul loro sitoweb malfunzionante. Le aspettative però sono alte per questi sei nuovi pezzi (abbastanza lunghi) che hanno avuto la possibilità di perfezionarsi e sedimentarsi per oltre un decennio. Si parte con “Sign of the times”, una composizione variopinta dal sapore epico, un saliscendi più o meno convincente tra solos chitarristici e rimandi corali alla Yes. L’impressione è che il pezzo non decolla abbastanza come potrebbe per un mix poco riuscito o calibrato. “The great attractor” è il pezzo più corto e scanzonato. Qui si sente davvero cosa manca: la batteria. C’è, ma è piatta e quasi fastidiosa. Un bell’arpeggio ai tasti d’avorio introduce “Fever pitch”, un pezzo atmosferico che sottolinea lo stato d’ispirazione del tastierista Brown; non sempre all’altezza invece il cantato di Reed e la solita batteria con un suono decisamente sbagliato o poco curato. E la chitarra finale? Poteva starci ma non così. Insomma una traccia che poteva rendere meglio con alcune accortezze. I quasi sette minuti di “Heavy air” invece sono i più belli e riusciti dell’intero disco. Un basso poderoso e profondo e l’arpeggio tastieristico di fondo annunciano le due note dell’elettrica di Mathewson che trascinano il brano e producono i brividi che ci attendevamo dai Pallas. Reed sussurra tra le pad oniriche di Brown e pilota un pezzo che esplode nel solo chitarristico che ci sia aspettava. Il refrain alla fine per farsi ricordare, ma non si sarebbe dimenticata comunque. Stupenda! Interessante compositivamente anche “The nine”, costruita su un saliscendi di canti e controcanti di diverse altezze, ancora la batteria il deficit: non solo il suono ma anche il mix. Peccato perché l’organo finale con le orchestrazioni meritava un miglior sostegno. Siamo alla fine, “The messenger”: il pezzo più astruso dell’album è un intreccio di soluzioni che vedono l’apice nell’arpeggio di pianoforte coadiuvato da cori regali ed il cantato di Reed, ma c’è spazio anche per il solo di chitarra più riuscito ed ispirato. La parte finale ha un refrain corale rafforzato dal lavoro chitarristico di Mathewson. E’ stato davvero un ascolto anomalo, tale da indurre a considerazioni un po' sconcertanti. Dopo 12 anni poteva essere giustificabile un calo qualitativo d’ispirazioni (o soluzioni musicali) ma non certo pecche di produzione e missaggio come invece sembra essere accaduto per un disco che poteva raggiungere vette superiori.

Best tracks: “Heavy air”, “The messenger”. 7/10

 

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