L’aria dimessa e bucolica Gilmour l’ha sempre avuta, forse solo negli 80 si era acceso tra problemi sentimentali, l’ego watersiano che lo opprimeva, la cocaina e le vicende giudiziarie sul marchio Pink Floyd, oggi succube invece dell’ego intellettuale della moglie Polly Samson sembra arenatosi definitivamente ad uomo di campagna e di famiglia. E proprio in famiglia e forse per la famiglia fa uscire questo nuovo disco, probabilmente sua ultima fatica. Durante il lockdown da “Covid” ha avuto l’ispirazione di pensare alle cose umane quali la vita, la morte, la vecchiaia ed il tempo che passa e di questo parlano i testi suggeriti alla moglie che li ha redatti. Convoca per la registrazione delle musiche il fido bassista Guy Pratt, il batterista Steve Gadd (e Adam Betts), il tastierista Rob Gentry e per un paio di pezzi Roger Eno. Lancia poi nel mondo musicale per professionisti la prediletta figlia Romany che canta e suona l’arpa. Farà co-produrre l’album al giovane Charlie Andrew che avrebbe dovuto rompere un po' le abitudini del chitarrista, persuadendolo dagli assoli e dalle sfumature finali dei pezzi (vedremo che così poi non sarà, in verità). L’album inizia come il suo precedente (ed anche gli ultimi Pink Floyd a sua “gestione”), un breve intro strumentale con piano e chitarra che dialogano. “Luck and strange” è un bel blues che si fa apprezzare di più con ripetuti ascolti, la voce sembra un po' in difficoltà, appannata, ma non la sua chitarra cristallina. L’hammond ed il piano elettrico appartengono al compianto Richard Wright. “The piper’s call” ha l’andamento delle canzonette già sentite su “On an island” ma indiscutibilmente il refrain è bello, intenso pur se in atmosfere datate. “A single spark” è talmente brutta quanto inutile, anche commentarla. “Vita brevis” serve per annunciare la figlia Romany all’arpa e con la successiva “Between two points” accende anche il microfono della voce. Il pezzo è una cover dei Mongolfier brothers davvero molto bella e riarrangiata a dovere, il timbro di Romany coinvolge nell’incedere lento che poi apre ad un bel fraseggio finale di Gilmour. Con “Dark and velvet nights” si torna sui territori datati dell’hammond, cori e orchestrazioni scontate. “Sings” sembra buona per Sanremo, sono cattivo ma non posso esimermi da tale commento, pur non entrando nei dettagli. Finalmente “Scattered” rinfranca e chiude bene pur non gridando certo alla miracolosa meraviglia. Le sonorità dal precedente “Rattle that lock” e le note a goccia di Echoes ci introducono in questo finale e le belle orchestrazioni accompagnano le vocals di Gilmour; dopo un acceso intermezzo pianistico dai rimandi classici cresce l’aspettativa di ogni fan gilmouriano (come me): il solo tagliente e travolgente, unico nella sua timbrica, riconoscibile tra mille, centomila. Arriva ed è introdotto da un fraseggio all’acustica, semplice e bello. Finisce così il quinto tentativo solista del magico chitarrista, deludente ma non sorprendente perché da tempo aveva perso lo smalto non solo compositivamente ma anche strumentalmente. La sua carriera solista non è mai decollata indipendentemente dal sound floydiano che portava come pesante eredità da corrispondere, non ha mai o più trovato una vena ispiratrice, una strada stilistica che lo rinnovasse. Nonostante il gran lavoro fatto da media e marketing e spingere il disco come il suo capolavoro, questo disco è un passo indietro addirittura dal precedente di 9 anni fa. La copertina è orribile, grafica spaventosa come la morte che Aubrey Powell voleva rappresentare.
Best tracks: “Luck and strange”, “Between two points”, “Scattered”. 7/10
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