Dopo il capolavoro “Your wilderness” cosa partorirà ancora il genio di Bruce Soord? La risposta è abbastanza semplice: un superbatterista come Gavin Harrison in pianta stabile nella band. E lo spazio sembra prenderselo tutto lui, in effetti; anzi gli viene allestito dal geniale leader. A discapito delle melodie avvincenti e delle composizioni libere ed articolate degli album precedenti, si intuisce dai primi ascolti che qualcosa sia cambiato: le strutture vocali sono ora più cadenzate e le linee melodiche dettate da continui riff e parti ritmiche a sposare ed esaltare il drumming work.
Non a caso si parte con un pianoforte puntellato… e la sillabata (nonché sussurrata) “Not naming any names” apre bene il sipario. “Try as I might” cadenza perfettamente il drumming di Harrison sforzandosi di richiamare più possibile il Pineapple Sound tipico (ne è infatti un “single”!). A parte il bel guitar-solo finale non entusiasma particolarmente. Invece è la successiva “Threatening war” a far salire parecchio l’asticella: meraviglioso saliscendi ritmico in un ‘atmosfera trainata da un cantato superlativo di Soord e tutto il gusto del grande Gavin Harrison. “Uncovering your tracks” spiega bene come un pezzo poco originale nel repertorio TPT sembri volersi aiutare dal drumming anziché esserne impreziosito. La dinamica di “All that you’ve got” è davvero avvincente ed il pezzo è in pieno stile TPT, con interventi preziosi all’elettrica ed alle tastiere. Un bel pezzo melodioso e articolato come “Far below” non sfigurerebbe dentro “Into Wilderness”, ma per dire che nulla aggiunge se non un certo giro di accordi Wurlitzer dei Supertramp! L’intermezzo acustico di “Pillar of salt” introduce i due pezzi migliori dell’album, ed anche gli ultimi. “White mist” regala 11 minuti di atmosfere rarefatte, melodiche e malinconiche con innesti elettronici e percussivi di rara bellezza, qui Harrison dimostra davvero appieno il suo calibro. Se mancava lo special guest tanto amato da Soord, eccolo nel finale: è David Torn, il fantasioso ed attempato chitarrista calibra e colora ulteriormente la composizione di un sound graffiante. A chiudere c’è “Shed a light”, con una bellissima, memorabile e sussurata strofa che trascina il pezzo addirittura verso sentieri o sentori Porcupine Tree. E poi, che bello il lavoro chitarristico di Soord! L’album non regge il capolavoro precedente nonostante l’apprezzabile tentativo di fare qualcosa di diverso, le idee sono rimaste confuse sul da farsi… nonostante qualche picco davvero riuscito. Sia bene inteso però: c’è bella Musica ma Soord ci stava abituando troppo, troppo bene.
Best tracks: “White mist”, “Shed a light”, “Threatening war”. 7/10
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