Quando recensisco Roger Waters sono di parte, sia chiaro a chi dovesse leggermi. Mi innamorai di lui per la sua coerenza, il suo perfezionismo, la sua passione ossessiva fino ad essere sempre divisivo. Anche con questo progetto è riuscito nel (prevedibile) intento. Decide di rielaborare addirittura il capolavoro per antonomasia con una chiave completamente diversa, non certo smussando, aggiungendo o sostituendo… l’ha dichiarato, non vuole bagnarlo d’altro bensì asciugarlo, perché emergesse quello che ritiene oggi possa essere esaltato, soprattutto da un punto di vista letterario/filosofico. Nessun parallelismo dunque, solo la rielaborazione di un artista libero, ora più che mai. Vi coinvolge molti musicisti dei suoi ultimi tour e vi aggiunge quattro figure nuove, proprio scelte per tale progetto: Via Mardot, talentuosa del magico theremin, Johnny Shepherd, rinomato organista, la vocalista Azniv Korkejian, compagna del bassista Seyffert, e Gabe Noel, arrangiatore delle orchestrazioni. Anche nel suo ultimo tour ribadisce prima di ogni concerto il suggerimento a chi ostenta solo fanatismo floydiano di andarsene affanculo al bar perché lui utilizza la sua musica anche per fare politica, che piaccia o meno, questo è sempre stato. La musica di “Speak to me” parte tra cinguettii e folate di vento, musica si fa per dire perché in realtà inizia il monologo di Waters introducendo il testo tenebroso di “Free Four” del 1972, un parlato che dice: “I ricordi di un uomo in età avanzata. Sono le azioni di un uomo nel fiore degli anni. Ti trascini triste nella camera da ammalato. E parli a te stesso mentre muori” e poi “La vita è un breve, caldo momento. E la morte è un lungo e freddo riposo. Hai la possibilità di provarci in un batter d’occhio. Ottant’anni, con un po’ di fortuna, o anche meno”. Il ritmo secco, asciutto e cadenzato accompagna tutto il disco e “Breathe” si colora di un organo che si intreccia a delicate orchestrazioni, la voce di Roger è roca e stanca ma bella proprio per questo, in questo contesto, in queste parole. Parte l’elettronica rielaborata dai synth davvero sintetici e più bassi che menano il motivo di “On the run”, con Waters che racconta di un suo sogno astruso… è meno frenetica dell’originale, addirittura contiene un’apertura quasi cinematica di orchestrazioni. Direi bellissima. Sorprendente la rilettura di “Time”, asciutta, oscura, cadenzata…i pad emozionali si alzano per introdurre il cantato di Roger, pacato ed accompagnato dallo strimpellio di una chitarra acustica e poi cori e orchestrazioni. Il solo di Gilmour è rimpiazzato da un theremin sensazionale, da brividi. E poi quei profondi violoncelli… magica! Il bellissimo strazio vocale di “Great gig in the sky” non c’è più, ma la morte viene lo stesso celebrata ed annunciata prima dalle campane e poi da un coro soffuso e filtrato che va ad intrecciarsi con il nuovo racconto di Waters (una lettera di Kendall Currie, assistente del poeta Hall) accompagnato da uno stridente theremin. Il 4/4 di “Money” è ancora più lento e cadenzato, Roger non lo canta neppure, lo racconta accompagnato da lampi di archi profondi e davvero coinvolgenti. Insomma, super acustica e arrangiamenti sublimi. Non l’ho mai amata molto “Money” ma questa, così, ha il suo perché, la trovo meno banale, anzi, interessante. Cosa fare della perfettissima “Us and them”? Giustamente era già così lenta e bassa da non richiedere particolari interventi per questo redux, a parte l’accompagnamento vocale e le orchestrazioni a dargli una dimensione più regale. In “Any colour you like” un vibrante theremin dialoga con il violoncello, poi il basso, l’hammond insomma intervengono tutti gli strumenti come fossero colori dell’arcobaleno. Roger vi aggiunge che qualsiasi colore siamo, qualsiasi bandiera appoggiamo dovremmo però essere uniti nell’unica causa, l’unica bandiera in cui tutti dovremmo poi riconoscerci: la pace. La follia di registrare un nuovo “Dark Side” è il pretesto ironico con il quale metaforicamente introduce e descrive “Brain Damage”, la pazzia, il caos in cui sembra nel finale onirico assumere un senso, una logica come le stelle nell’universo, ognuna con una sua funzione all’interno di un unico progetto. E allora l’incedere di “Eclipse” può aprirsi, liberarsi e mostrare luce e buio, vita e morte insieme in un orchestra di meraviglia che non ha spiegazione ma solo contemplazione, un pò come gli occhi del cane in copertina. Voglio chiudere con le bellissime parole di Nino Gatti: “Mai. Mai. Mai una volta che questa canzone riesca a lasciarmi gli occhi asciutti. Troppi i significati racchiusi, tantissimi i momenti da ricordare, innumerevoli i riflessi luminosi che la luna prova a nascondere offuscando il sole. E quel battito del cuore finale, che è vita ma anche tutto il contrario della stessa, ti indica ritmicamente che la puntina sta per finire il suo percorso tra i solchi delle emozioni. “There's no dark side of the moon really. In matter of fact, it's all dark”. Era la frase dell'irlandese Gerry O'Driscoll che chiudeva “Dark Side”. Gerry era il portiere degli studi Abbey Road; così come per altri personaggi (tra i quali i coniugi McCartney), era stato chiamato da Waters (ancora lui!) per rispondere a una serie di domande che sarebbero state spalmate all'interno del disco per rendere universali i temi delle canzoni. Waters decide di chiudere la “sua” Dark Side rispondendo direttamente al buon Gerry, volato nei cieli da qualche anno, con queste parole: “Ti dirò una cosa, Gerry, vecchio mio. Non è tutto buio, vero?”…”. Le battaglie e le ossessioni di Roger Waters ottantenne sono ancora sul palcoscenico, come anche sul palco della vita che ha vissuto costruendosi (forse per intercessione) come nessun altro l’immortalità.
Best tracks: “On the run”, “Time”, “Any colour you like”. 9/10